Tutti vogliamo andare da qualche parte. Non sarebbe esagerato affermare che è nella stessa natura umana andare, non restare fermi, partire alla scoperta. Relativamente incapace di sradicare del tutto questa pulsione, il potere si dedica piuttosto a determinare in anticipo la destinazione delle nostre strade, delimitandone bene i campi che accolgono la scoperta dei territori proibiti. Andare a scoprire il nuovo centro commerciale, gustare un surrogato della natura in un parco pubblico, gettarsi nell'ignoto di un nuovo impiego, fare festa in luoghi predestinati ad evitare ogni gioioso e quindi incontrollabile eccesso... ecco alcune delle destinazioni che ci vengono offerte.

Ma la questione non riguarda solo la destinazione. La critica di questo fantomatico mondo messo in scena dal potere e dalla merce s'incaglierebbe se non comprendesse che è il percorso stesso a condizionare la destinazione. Vivendo in un mondo basato sul denaro, le sole destinazioni del nostro errare non possono che essere i templi in cui regna il denaro. Vivendo in un mondo in cui il lavoro salariato determina il ritmo della vita, l'unico fine diventa ovviamente la fabbrica, l'impresa, il laboratorio, il supermercato.

Se ci caliamo dall'ambito della critica alla logica del potere e della sottomissione per immergerci nel concreto, in relazione alla questione dei percorsi e delle destinazioni ci scontreremo quasi direttamente con l'esistenza dei trasporti pubblici, che sembrano essere diventati uno degli obiettivi preferiti dagli arrabbiati, evidentemente ciascuno con le proprie ragioni e collere, più o meno condivisibili. Potremmo limitarci ad una critica superficiale dei trasporti pubblici, dimenticando che costituiscono in effetti una delle arterie più importanti della città. Potremmo limitarci a denunciare i prezzi troppo elevati per un biglietto o un abbonamento, l'aumento dei controlli, l'installazione di tornelli che trasformano l'ingresso alla metropolitana in un esercizio di ginnastica, o ancora l'eccesso di videosorveglianza, di agenti preposti alla prevenzione... E tutto ciò, assolutamente necessario e utile, rischierebbe nel contempo di condurre, noi, nemici del potere, sul terreno scivoloso della rivendicazione di un qualsiasi «diritto alla mobilità», di «trasporti pubblici gratis», o magari di una «riduzione della repressione dei "portoghesi"». Sono terreni scivolosi perché rischiano di omettere la questione fondamentale: perché ci sono i trasporti pubblici, a cosa servono?

La gran maggioranza degli utenti dei trasporti pubblici li utilizzano per spostarsi da casa verso il lavoro, verso istituzioni, verso appuntamenti con burocrati, verso luoghi di consumo come il supermercato, lo stadio o la discoteca. Ciò fornisce una leggera spiegazione per comprendere l'importanza che il potere attribuisce ad una rete di trasporti pubblici che funzioni decentemente. Lo spostamento, la circolazione di persone è fondamentale per l'economia, per l'esistenza del potere. I trasporti pubblici costituiscono una delle risposte a questa necessità economica di spostarsi, proprio come la sua organizzazione fa il possibile per offrire il percorso allo scopo di determinare la destinazione. E questo spostamento deve ovviamente avvenire nella maniera più efficace (che non equivale alla più piacevole) e più sicura (che non equivale alla più affascinante). La mobilità totale e quotidiana della popolazione necessita di adeguate infrastrutture. L'importanza di queste infrastrutture per l'ordine sociale emerge al contrario allorquando queste vengono paralizzate (poco importa la causa): ritardi, caos, disordine, rottura della routine. Si potrebbe definire un terreno fertile per la libertà, ben altro rispetto alla riproduzione quotidiana dei ruoli, del potere, dell'economia.

E fin qui ci siamo limitati agli aspetti concernenti la logica della mobilità economica dietro i trasporti di massa. Ma i trasporti pubblici configurano profondamente non solo lo spazio fisico (con tunnel, cavi elettrici, segnaletica, binari, rumore) ma forse ancor più lo spazio mentale: la città diventa la somma delle fermate di tram e bus, il territorio si vede delimitato dalle fermate di servizio, tutto il resto non è che passaggio, per lo più non a caso sottoterra. La rete dei trasporti pubblici, compresa la militarizzazione che essi determinano, può essere analizzata come una autentica tela che copre il tessuto sociale, che contribuisce a determinarne i rapporti, che lo contiene e lo rinchiude. Nella prigione a cielo aperto che il potere è sul punto di costruire, i trasporti pubblici costituiscono i fili spinati e le torrette di guardia che impediscono ogni evasione. Come in qualsiasi prigione o campo, i reclusi vengono registrati e schedati. La gigantesca schedatura, realizzata attraverso carte elettroniche personalizzate, movimenti di tutti gli utenti paganti (e ancora oltre, data la videosorveglianza), non è in effetti che uno degli aspetti della prigione sociale.

Allo stesso tempo, i trasporti pubblici non sono una fortezza inespugnabile. Esattamente perché sono una rete che si estende dappertutto, non saranno mai al riparo da atti vandalici. La sua onnipresenza costituisce al tempo stesso la sua vulnerabilità. Forare i pneumatici in un deposito di bus, tranciare cavi lungo le rotaie, distruggere segnali che ordinano la circolazione, erigere ostacoli sulle rotaie... le possibilità per attacchi semplici e riproducibili sono infinite e soprattutto impossibili da prevenire ed evitare per i direttori della prigione sociale. Ogni perturbazione, di qualsiasi ampiezza, ha effetti immediati sulla routine quotidiana, che chiaramente è quella del lavoro, dell'economia, del potere e del controllo. Lottare per mantenere i trasporti pubblici accessibili a tutti diventa, in quest'ottica, rivendicare una prigione aperta — esattamente ciò che il potere sta costruendo. Del resto non ci sembra pertinente prevedere se, nel mondo dei nostri sogni, in n mondo in cui il denaro sarà detronizzato e il potere distrutto, esisteranno ancora questi trasporti, considerando che la loro logica attuale è interamente ed esclusivamente impregnata dall'economia che vogliamo distruggere e dal controllo sociale che vogliamo sradicare. Si tratta oggi di intendersi su cosa siano realmente i trasporti pubblici: arterie del capitalismo, barriere che escludono tutto ciò che esce dalla routine del lavoro e del potere, fili spinati della prigione a cielo aperto in costruzione. E, così come l'evasione di un detenuto non significa di per sé la distruzione della prigione (e in una certa misura nemmeno la libertà, libertà che, come siamo soliti dire, può estendersi all'infinito solo attraverso la libertà degli altri), la questione torna ad essere quella di attaccare i trasporti pubblici allo scopo di danneggiarli e distruggerli. Paralizzare la circolazione orchestrata e condizionata significa null'altro che battersi per la libertà di tutti.

 

[Hors Service, n. 24, 7/1/2012]