#author Alfredo M. Bonanno
#title Chiusi a chiave. Una riflessione sul carcere
#date 2013
#lang it
#cat geo
#uid amb-chiusi-a-chiave
#notes Prima edizione: nel libro Affinità e organizzazione informale, Catania 1996, pp. 116-134
Seconda edizione: Allaria edizioni, Paris 1997
Terza edizione: aprile 2007
Quarta edizione: novembre 2013
Testo della conferenza sul carcere tenuta nel marzo del 1993 presso il Laboratorio anarchico di via Paglietta a Bologna.
Opuscoli provvisori n. 8
Dedichiamo questo opuscolo a tutti i compagni anarchici prigionieri
** Prefazione
Il testo che qui pubblichiamo è la sbobinatura di una conferenza sul carcere – tenutasi nel marzo 1993 presso il Laboratorio anarchico di via Paglietta a Bologna – già pubblicata nel libro Affinità e organizzazione informale delle Edizioni Anarchismo. Tale conferenza viene qui ripresentata con poche correzioni dell’autore e una sua Nota introduttiva scritta nel carcere di Rebibbia, dove attualmente [1997] si trova prigioniero insieme a molti altri anarchici.
I motivi che ci hanno spinto alla pubblicazione sono diversi.
Innanzitutto il valore degli argomenti esposti, che condividiamo, e in particolare della tesi principale che è quella della necessità della distruzione del carcere. È infatti prerogativa degli anarchici quella di desiderare un mondo senza alcun tipo di prigione e di interpretare questo desiderio nel senso dell’attacco, della distruzione del carcere in un’ottica rivoluzionaria. Perché siano liberi tutti, nessuno escluso.
Inoltre il carcere è una realtà che ci è, soprattutto oggi, sgradevolmente vicina, vista la notevole spinta repressiva che sta colpendo molti anarchici in tutta Italia, in particolare in relazione alla vicenda Marini: una macroscopica montatura giudiziaria (ma non è la stessa Giustizia una enorme, tragica montatura?) che vede in questo momento tanti compagni detenuti e alcune decine di anarchici rischiare moltissimi anni di carcere.
Ma, al di là della grave contingenza, questa pubblicazione vorrebbe essere uno spunto rivolto agli anarchici in particolare, perché si riapra un dibattito sul problema carcere, dibattito che si è negli ultimi tempi affievolito e che invece a nostro giudizio è bene riprendere per dotarci di strumenti teorico-pratici non scontati, per attuare un progetto offensivo nei confronti della prigionia.
Uno dei pregi dell’analisi di Alfredo nella sua critica alle tesi abolizioniste è proprio quello di collocare il carcere all’interno di un tessuto relazionale organico, ovvero di rendersi conto che non possiamo capire, criticare e quindi attaccare il carcere se lo consideriamo come una cosa a sé, un’entità isolata slegata dal resto del mondo, dalla società e da noi. Se lo vediamo solo come una fortezza esso rimarrà inespugnabile.
Apparentemente il carcere è il luogo fisico dove viene rinchiusa la vita di migliaia di individui, limitandone all’interno di sorvegliatissime e spesse mura le possibilità e le modalità di movimento per un determinato tempo. Ma il carcere non è solo questo, non è solo il confine ultimo della società dove si può entrare solo come carcerati o carcerieri. Non è solo il lato buio del nostro modo di vivere, quel ripostiglio inaccessibile ai nostri sguardi di buoni cittadini, dove vengono riposti gli scarti o i nemici di questo nostro bel vivere insieme a quegli antipatici ma necessari strumenti atti a far pulizia.
Il carcere è la struttura dove prende corpo il concetto di pena, è l’architetto che lo progetta, è l’azienda che lo costruisce, è la legge che lo ratifica, è il tribunale che lo introduce, è il carabiniere che ti ci conduce, è il secondino che ti sorveglia, è il prete che vi tiene messa, è lo psicologo che vi presta la propria opera. È questo e altro ancora. È l’azienda che sfrutta il lavoro dei detenuti. È quella che si arricchisce fornendo il rancio, le suppellettili, le attrezzature di controllo, i beni “voluttuari” che i prigionieri possono acquistare a carissimo prezzo, magari facendo lavori che hanno lo scopo di reinserirli nella società dei servi e dei padroni. Il carcere è anche il professore che lo giustifica, è il riformatore che lo vuole più umano, è il giornalista che ne tace le condizioni, è il cittadino che lo ignora o lo teme.
Così come è carcerata quella volontà che subisce la prigione come inevitabile limite di ogni società possibile, persino di una “liberata”. Quella volontà che attende sempre che altri in sua vece risarciscano i torti e facciano giustizia, che si volta rassegnata dall’altra parte di fronte ad un orrore di cui si riconosce responsabile. Perché questo orrore ci riguarda tutti e ce ne potremo liberare soltanto liberando tutti: distruggendo ogni carcere definitivamente.
Maggio 1997
Edizioni Allaria
** Nota introduttiva
Il carcere è la struttura portante della società in cui viviamo.
Spesso non sembra ma è così.
Una società progressista, educatrice, permissiva, una società che si
lascia guidare da politici illuminati, contrari ad ogni ricorso alla
maniera forte, una società che guarda scandalizzata ai massacri più o
meno lontani che costellano la carta geografica del mondo, questa
società che sembra abitata da tanti cittadini per bene attenti solo a
non danneggiare il verde e a pagare il minimo possibile di tasse,
questa stessa società che si crede lontana dalla barbarie e
dall’orrore, ha il carcere alle porte.
Ora, l’esistenza stessa di un luogo dove uomini e donne vengono tenuti
chiusi in gabbie di ferro opportunamente attrezzate, guardati a vista
da altri uomini e da altre donne che stringono in mano una chiave, un
luogo dove gli esseri umani trascorrono anni e anni della loro vita
senza fare niente, assolutamente niente, è il massimo segno
dell’infamia non solo per questa società ma per tutta un’epoca
storica.
Scrivo questa Nota introduttiva nel carcere di Rebibbia e non
mi sento di modificare nulla della conferenza da me fatta a Bologna
alcuni anni fa. Niente è infatti cambiato, commisurando l’attuale
ottusità delle istituzioni carcerarie con le mie passate esperienze
descritte, in parte, nel testo qui pubblicato.
Niente poteva cambiare. Il carcere è un bubbone che la società cerca
di nascondere senza riuscirci. Come i medici del Seicento che curavano
la peste mettendo unguenti sui bubboni ma lasciando che i ratti
scorazzassero fra le immondizie, così i nostri tecnici di oggi, a
tutti i livelli delle gerarchie carcerarie, cercano di mettere
coprivergogne per nascondere questo o quell’aspetto più orribile del
carcere, senza riflettere che l’unico modo per affrontare il carcere è
quello di distruggerlo. Distruggerlo senza che di esso rimanga pietra
su pietra, e non come l’umanità a volte ha fatto con le costruzioni
che nella sua storia hanno contrassegnato le infamie più atroci,
lasciando qualche rudere a perenne ricordo.
Ma chi è abituato a starnazzare nell’aia spesso si chiede: è mai
possibile distruggere il carcere? È mai possibile farlo scomparire del
tutto in una società come la nostra in cui una congrega di dominanti
chiamata Stato sceglie per tutti e impone queste scelte con la forza?
Ed è così che i migliori fra questi starnazzatori, cioè i più buoni di
cuore e agili d’ingegno, cercano di mitigare le sofferenze dei
carcerati dando loro il cinema una volta la settimana, la televisione
a colori, un vitto quasi decente, un colloquio settimanale, la
speranza di uscire prima del giorno della propria fine pena e tutto il
resto. Certo, in contropartita, questa brava gente vuole qualcosa.
Dopo tutto si tratta di poca cosa. Vuole che i carcerati si comportino
bene, siano rispettosi verso gli agenti di custodia, acquistino una
sufficiente capacità di resistere ad anni di ozio e di astensione
sessuale, si sottopongano ad un trattamento psicologico da parte di
personale specializzato e dichiarino, in una forma più o meno velata,
di essere redenti e in grado di tornare nella società che li ha
espulsi per il loro cattivo comportamento.
Io che frequento il carcere da più di un quarto di secolo posso fare
un piccolo confronto. Una volta il carcerato viveva letteralmente in
un buco infame e infetto, visitato da topi e vari animali, vedeva la
luce del giorno per pochi minuti, non aveva la televisione e non
poteva neanche farsi un caffè in cella. Oggi la situazione è senza
dubbio migliorata. Il carcerato può fare dei veri e propri pranzi in
cella, perfino i dolci, ha più ore d’aria giornaliera di quante ne
faceva una volta in un mese, può avere colloqui aggiuntivi, qualche
telefonata ai suoi familiari, lavorare con uno stipendio decente (la
metà di quello di un operaio medio che lavora fuori), godere della
televisione a colori, del frigorifero, della doccia e di tutto il
resto che si sta diffondendo in quasi tutte le carceri.
Ma può egli dire di stare meglio di una volta? Certo che lo può dire.
Ma la sera, quando si avvicina l’ora più tenera del giorno, quando il
proprio cuore vorrebbe essere altrove, alle sensazioni e agli affetti
ormai perduti, quando sente stridere nella toppa della cella la chiave
dell’infamia, la sua condizione è sempre la stessa. E l’orrore che
emana da una condizione del genere, da un essere umano chiuso in una
cella a chiedersi senza risposta del senso della vita, questo orrore
non ricade su tutta la società? Possibile che gli starnazzatori
ultrarealisti non se ne siano accorti?
Certo, i carcerati accettano questi miglioramenti, non sono mica
stupidi, ed è giusto che sia così, ed accettano di pagare la
contropartita, di mostrarsi buoni e accondiscendenti, di litigare il
meno possibile con le guardie e di raccontare favole agli educatori e
agli psicologi che come ombre si aggirano nei corridoi, in attesa
dell’ora di tornare a casa e della fine mese per incassare lo
stipendio. A parte il fatto, evidente, di un abbassarsi del livello
dello scontro in carcere, qui nessuno crede all’inserimento del
carcerato nella società cosiddetta civile, né gli assoggettanti, né
gli assoggettati. È una commedia dell’arte che ognuno recita
magnificamente senza copione.
Prendiamo, per esempio, il prete. Egli sa benissimo, se non è uno
stupido, che tutti i detenuti che vanno a messa ci vanno per
incontrarsi con altri detenuti di altri bracci che non possono vedere
altrimenti. Eppure accetta la realtà con l’ipocrisia del suo mestiere
e tira a campare. Certo, qualche volta c’è un detenuto che manifesta
una fede repentina, un’illuminazione sulla via di Damasco, ma questo
il prete lo sa benissimo, è funzionale al trattamento per uscire in
semilibertà o per avere la sospensione pena o un altro dei cento
benefici previsti dalla legge ma subordinati alla decisione del
personale di custodia, degli educatori, degli psicologi e perfino del
prete.
Quello che fuori era chiarezza nei riguardi dello sbirro, qui dentro è
diventato confuso. I carcerati di oggi nella loro quasi totalità,
stanno perdendo la propria identità di carcerato, stanno accettando un
cambiamento permissivo e possibilista che li ingloba a poco a poco
all’interno di un meccanismo che promette non tanto di redimerli
quanto di farli uscire un poco prima della loro fine pena.
Come il lettore attento di questo libretto potrà vedere, esiste una
corrente di pensiero che si vanta di volere “abolire” il carcere. Ora,
abolire significa ablare, cioè togliere dalla società una sua
componente essenziale, il carcere. Lasciando la società così com’è,
questa abolizione è impossibile o, nel caso dovesse mettersi in moto,
la stessa abolizione dovrebbe tornare utile al dominio.
Cerchiamo di approfondire questo punto. L’unico modo per fare qualcosa
di serio nei confronti del carcere è quello di distruggerlo. Ciò non è
più assurdo, né più utopico della tesi che vorrebbe abolirlo. Lo
Stato, per cui il carcere è essenziale, ricorrerebbe a misure estreme
sia nel caso della distruzione che in quello dell’abolizione. Però,
condizioni specifiche di carattere rivoluzionario potrebbero rendere
possibile la distruzione del carcere, potrebbero provocare tali
sconvolgimenti nella realtà sociale e politica da fare diventare
realtà questa utopia a causa della improvvisa, o progressiva, mancanza
di poteri in grado di imporre l’esistenza del carcere.
Nel caso dell’abolizione, se essa si mette in moto in maniera
progressiva, vuol dire che lo Stato sta pensando di provvedere
diversamente al problema del carcere. In effetti, qualcosa in questo
senso si sta muovendo. Come faccio vedere nel testo che segue, è in
corso una grande apertura del carcere, le forze politiche esterne che
una volta erano tagliate fuori, oggi vengono fatte entrare in carcere
con mille espedienti, ci sono iniziative culturali di ogni genere
(cinema, teatro, pittura, poesia, insomma tutti i settori della
cultura sono al lavoro). Questa apertura sollecita una partecipazione
dei detenuti. Partecipare sembra, sulle prime, eliminare le disparità,
permettere a tutti un livello di eguaglianza, impedire che si resti
confinati in cella, parlare, fare sentire i propri diritti. E questo è
vero, e in tale direzione il “vecchio” carcere è stato sostituito dal
“nuovo”. Ma non tutti i detenuti sono disponibili a partecipare.
Alcuni hanno una propria dignità di “fuorilegge” e non vogliono essere
espropriati, quindi non vogliono partecipare.
Non sto qui riproponendo la vecchia distinzione tra detenuti
“politici” e detenuti “comuni”, che non mi ha mai convinto del tutto.
Personalmente ho sempre rifiutato – e continuo a farlo anche ora nel
carcere in cui sto scrivendo questa Nota introduttiva –
l’etichetta di detenuto “politico”, ma mi sto riferendo ai
“fuorilegge”, a coloro cioè che hanno una vita dedicata totalmente a
vivere contro o al di là delle condizioni fissate dalla legge. È
chiaro che se il carcere si apre da un lato ad alcuni detenuti
disposti a partecipare, si chiude nei riguardi di quelli che volendo
restare “fuorilegge” anche in carcere non sono disposti a partecipare.
Se a questa distinzione si aggiunge l’aumento del controllo nella
società, l’avvento delle potenzialità telematiche, la centralizzazione
dei servizi di sicurezza e di polizia a livello se non altro europeo,
si arriva alla conclusione che ad andare contro le leggi, in un futuro
più o meno prossimo, saranno solo coloro che avranno veramente la
determinazione assoluta del fuorilegge.
Si può concludere pertanto che il progetto del nuovo dominio è quello
di abolire il carcere tradizionale aprendolo alla partecipazione, ma
di creare nel contempo un nuovo tipo di carcere, chiuso in maniera
assoluta, un carcere con il camice bianco dove i veri fuorilegge
finiranno i loro giorni. E questo il carcere del futuro, e i teorici
dell’abolizione del carcere saranno accontentati, in quanto le carceri
col camice bianco potranno in futuro non avere più questo nome odioso,
ma diventare cliniche per malati mentali. Chi si intestardisce nella
ribellione e nell’affermare la propria identità di “fuorilegge”,
contro ogni proposta partecipativa del potere, non è egli forse un
pazzo? E i pazzi, non costituiscono essi forse un problema medico
piuttosto che penitenziario?
Una società del genere, più forte come capacità di controllo sociale e
politico, chiamerebbe tutti a collaborare a questo progetto
repressivo, e quindi avrebbe una minore necessità di ricorrere alle
condanne. Il concetto stesso di pena potrebbe essere rivisto. In
fondo, oggi, la maggior parte della popolazione carceraria è
costituita da persone che hanno commesso reati che da un momento
all’altro potrebbero non essere più tali: uso di sostanze
stupefacenti, commercio delle stesse, piccoli furti, reati
amministrativi, ecc. Togliendo queste persone dal carcere e riducendo
le possibilità dei reati più seri, come ad esempio le rapine e i
sequestri di persona, che con un controllo del territorio com’è quello
in progetto diventeranno quasi impossibili, restano pochi reati veri e
propri. Quelli di natura passionale potrebbero benissimo, ed è questa
l’intenzione, essere controllati con il ricorso alla detenzione
domiciliare. E allora, in queste condizioni, chi resterebbe in
carcere? Quelle poche migliaia di individui che non vogliono accettare
questo progetto, che odiano una società del genere, che odiano
obbedire e subire, insomma i ribelli coscienti di esserlo, che
continueranno ad attaccare, forse contro ogni logica, e nei riguardi
dei quali sarà possibile applicare le condizioni specifiche di
detenzione e di “cura” più vicine a quelle di un manicomio che di un
carcere vero e proprio. Ecco dove porta, a stringere le premesse
logiche, la tesi dell’abolizione del carcere. Lo Stato potrebbe
essere, in futuro, uno dei sostenitori di questa tesi.
Il carcere è l’espressione più brutale e immediata del potere e come
il potere va distrutto, non può essere progressivamente abolito. Chi
pensa di poterlo migliorare per poi distruggerlo ne rimane prigioniero
per sempre.
Il progetto rivoluzionario degli anarchici è quello di lottare insieme
alla gente per farla insorgere contro ogni sopruso e ogni repressione,
quindi anche contro il carcere. Quello che muove gli anarchici è il
desiderio di un mondo migliore, di una vita migliore, di una dignità e
di una morale che l’economia e la politica hanno distrutto. In questa
società non può esserci posto per il carcere.
È per questo che gli anarchici fanno paura.
È per questo che vengono rinchiusi in carcere.
Carcere di Rebbibia, 20 marzo 1997
Alfredo M. Bonanno
** Chiusi a chiave. Una riflessione sul carcere
Voici le temps des Assassins.
Rimbaud
Il discorso sul carcere è un discorso che il movimento rivoluzionario
e i compagni anarchici fanno da tanto tempo e che periodicamente
ritorna, perché, per molti di noi, costituisce un problema che ci
tocca direttamente o tocca compagni che ci sono vicini, cui siamo
affezionati.
Conoscere com’è il carcere e perché esiste e funziona, o come potrebbe
non esistere, oppure funzionare meglio, a seconda dei punti di vista,
è senza dubbio un fatto interessante. In passato ho ascoltato molti
discorsi, conferenze, dibattiti, specialmente una diecina di anni fa,
in epoca in cui vigeva, dominava, un modo analitico di considerare la
realtà gestito da un certo marxismo culturalmente e praticamente
padrone della scena politica, e il punto centrale di questi dibattiti
era “la professionalità” di chi si esprimeva sul carcere.
Normalmente si ascoltava, o si immaginava di ascoltare, qualcuno che
sapeva cosa dire sul carcere. Ecco, non è il mio caso: io, in effetti,
non so molto sul carcere, non ho coscienza di sapere molte cose sul
carcere, perché non sono né un professionista dei problemi del carcere
e nemmeno uno che in fondo in fondo l’ha sofferto molto, ... qualcosa,
questo sì. Quindi, se siete interessati a quel modo di vedere le cose,
cioè ad un’angolatura di tipo professionale, non aspettatevi molto da
questa conferenza sul carcere. Più che altro quello che dirò è
costituito da impressioni personali, qualche piccolo approfondimento
delle tematiche correnti sul problema carcerario. Nessuna
professionalizzazione, nessuna competenza specifica. Dico subito che
ho una specie di ripulsa, un senso di profondo disgusto per chi si
presenta su un argomento specifico e, settorializzando la realtà,
dice: “Io su questo argomento ho una competenza, adesso ve lo
dimostro”. Io non ho questa competenza.
Certo, ho avuto i miei guai, nel senso che più di vent’anni fa sono
entrato per la prima volta in carcere e, effettivamente, quando mi
sono trovato chiuso in una cella per la prima volta, ho avuto una
grossa difficoltà. La prima cosa che ho pensato è stata quella di
distruggere la radio, perché c’era la filodiffusione ad altissimo
volume e, chiuso lì dentro, dopo qualche minuto, mi sembrava di
impazzire. Mi sono tolto una scarpa e ho cercato di rompere l’oggetto
da cui veniva quel rumore osceno. Il rumore proveniva da una scatola
blindata collocata nel soffitto, accanto a una lampadina sempre
accesa. Pochi minuti dopo l’inizio dei miei tentativi, una testa è
entrata nello spioncino della porta blindata e mi ha detto: “Ma scusi,
lei che sta facendo?”, e io gli ho risposto: “Sto cercando di ...”,
“No, non è necessario, basta che lei chiami me, io sono lo scopino, e
così spengo la radio da fuori ed è tutto a posto”. In quel momento ho
scoperto cosa era, ed è, il carcere. Ecco, la mia cultura specifica
sul carcere sta tutta qua. Il carcere è una cosa che ti distrugge, che
sembra assolutamente insopportabile, – “Come faccio a vivere qui
dentro, io, con questa cosa che mi frastorna la mente, che mi
frastorna il corpo...” – tac, un piccolo gesto, ed è tutto finito.
Questa è la mia professionalità sul carcere. Ed è anche un po’ la mia
vicenda personale riguardante il carcere.
Di certo, ci sono molti studi sul carcere, ma io li conosco solo in
piccolissima parte. Tenete presente che alcuni studi sono stati fatti
non solo da specialisti della sociologia della devianza, ma, per conto
del Ministero, hanno fatto degli studi anche gli stessi detenuti. Uno
di questi studi è stato nel carcere di Bergamo. Io, che l’ho visto, vi
ho trovato cose incredibili, grafici bestiali, spaventose
indicizzazioni statistiche sulla popolazione detenuta di quel carcere
nell’arco, mi pare, di tre anni. Comunque, questi studi lasciano il
tempo che trovano, non sono materiale serio, nel senso che può essere
realmente proposto a chi deve, eventualmente, prendere decisioni. In
fondo, secondo me, non si deve sopravvalutare la capacità degli
strumenti scientifici e le loro possibilità di impiego, specie in
questo campo. Le scienze sociali non sono scienze precise, per quel
che è possibile parlare di precisione nella ricerca scientifica. Ci
sono tanti strumenti ma quasi sempre inefficaci. La strumentazione
matematica che si possiede è sempre più in corso di svalutazione, ci
si rende conto adesso che non si prova assolutamente nulla con questi
strumenti. Non c’è modo di poter arrivare ad una conclusione. Non si
può dire: visto che ci sono tante persone in gabbia, allo stesso modo
di come accade con i topi, vediamo cosa succede. Non è così semplice,
le persone non sono topi, per fortuna. E in più la scienza che studia
la gente, la sociologia, nella sua maggior parte è un ginepraio di
coglionate, fortunatamente.
Ma quali sono le posizioni teoriche riguardanti il carcere? Penso che
a questa domanda io possa rispondere, anche a causa della mia
ignoranza, che posizioni teoriche ce ne sono tante ma lasciano tutte
il tempo che trovano. In generale, a me non interessano molto. Sono
quelle dei libri, le varie disquisizioni dei filosofi sul carcere, le
chiacchiere dei cosiddetti specialisti. Alcune posizioni teoriche sono
state un po’ più importanti e più significative, diciamo, una ventina
di anni fa, però perdono d’importanza oggi. C’è una concezione del
carcere che lo lega, come sviluppo storico, ad una particolare
evoluzione della formazione produttiva specifica del capitalismo. Si
può assistere così ad una ricostruzione, fatta un po’ a toppe e a
strattoni, che procede in questo modo: il carcere antico, posto in
relazione con la produzione pre-capitalista, oppure pre-mercantile,
poi il carcere mercantile, il carcere capitalista, il carcere
imperialista, il carcere... insomma, tutte cazzate, secondo la mia
personale opinione! E non mi interessa affatto discutere se oggi si
possa parlare di un carcere post-industriale, a me pare una
stupidaggine, ma c’è gente che ha voglia e capacità di farlo e quindi
riesce a spacciare queste chiacchiere come cose realmente importanti.
Penso che questi punti di vista teorici non hanno molta importanza, se
non a livello di esercitazione sociologica.
I primi sostenitori del carcere in assoluto sono i detenuti, senza
saperlo e senza volerlo, ovviamente, perché è come l’operaio che si
riconosce nella fabbrica, nel sistema della fabbrica se è un operaio
di fabbrica, o sostanzialmente nella catena che lo tiene legato. Come
diceva Malatesta, non ci rendiamo conto, essendo abituati alla catena,
che noi non camminiamo grazie alla catena, ma malgrado la catena e ci
accade perché si tratta di un fatto che non è tanto facile capire.
Spesso, parlando con un detenuto che ha fatto venti, trent’anni di
carcere, ti accorgi che lui certamente ti parla di tutti i guai del
carcere, ecc., però vedi pure che ha un rapporto di amore e odio con
l’istituzione carceraria, perché in fondo quest’ultima è la sua vita.
E questa è una parte del problema. Capisci così che non puoi
sviluppare una critica partendo dal pensiero che viene dall’interno
del carcere, dall’esperienza che viene dall’interno del carcere,
perché questa esperienza è certamente un’esperienza negativa di
rigetto e di rifiuto del carcere, ma è sempre ambivalente, come tutte
le esperienze della vita. Io, personalmente, l’ho vissuta ma non so
spiegare in che modo l’ho sentita crescere dentro di me. Gli uomini
non sono automi, non vedono le cose in bianco e nero. Ebbene, capita
che al momento di uscire dal carcere hai una sensazione come se
lasciassi una cosa a te cara. E perché? Perché sai che stai lasciando
una parte della tua vita, perché lì dentro hai trascorso una parte
della tua vita, la quale, anche se nella condizione peggiore, è sempre
una parte della tua vita, e per quanto l’hai potuto vivere male, fra
le più atroci sofferenze, che poi magari non è sempre vero, è sempre
meglio del niente a cui la tua vita si riduce nel momento che non c’è
più. Quindi, anche il dolore, qualsiasi dolore, è sempre meglio del
niente, è sempre una cosa positiva, e magari non lo sappiamo spiegare,
però lo sappiamo, i detenuti lo sanno. Quindi i primi sostenitori del
carcere sono proprio loro.
C’è poi il senso comune, questa fortissima soglia, insuperabile, che
non riesce a capire come si potrebbe fare senza il carcere. Di fatto,
questo senso comune attanaglia e fa diventare a volte ridicole le
proposte di abolizione del carcere, perché, in effetti, questa
proposta vuole salvare capre e cavoli, quando sarebbe semplicissimo
dire: “Il carcere è insostituibile, fermo restando le cose. Come
faccio a far restare fermo il diritto del gioielliere a salvaguardare
la sua proprietà, davanti al mio diritto di pigliargli i gioielli con
la pistola, io che non ho soldi e non so cosa mangiare?”. Sono due
cose in contraddizione tra loro. Ponendole sul piano del contratto
universale, o del diritto naturale voluto da Dio, dal Diavolo, dalla
Ragione o dall’animalità kropotkiniana, come faccio a superare questa
contraddizione? L’unica valutazione corretta è la più elementare: se
mi va bene mi piglio i soldi, se mi va male mi faccio gli anni di
galera. Ho parlato con tanti rapinatori e, fra i primi che ho
incontrato, uno mi fece questo discorso: “Senti – mi disse – piglia un
pezzo di carta, tu che sai leggere e scrivere, fatti i conti, quanto
posso guadagnare in tre anni di lavoro in una fabbrica?”. (All’epoca
in fabbrica si potevano guadagnare in tre anni di lavoro circa 15
milioni). E lui, continuando: “Io faccio una rapina, se mi va bene mi
piglio più di 15 milioni, me ne piglio 20, forse 30, se mi va male mi
faccio tre anni di carcere e sono sempre allo stesso punto. In più,
anche se mi va male, non faccio tre anni di lavoro sotto un padrone
che mi tortura, oppure in Germania a dormire nei container, ma sto in
galera e qui, bene o male, sono rispettato, sono un rapinatore, quando
esco all’aria mi riconoscono come una persona seria, non come un
disgraziato che vive del suo lavoro”. Io, francamente, con tutta la
mia scienza, non ho saputo cosa rispondere, non mi sembrava sbagliato
il suo discorso, anche ponendolo sul piano del puro calcolo monetario.
E che gli potevo dire? “Ma, sai, la proprietà non si tocca”. Mi
avrebbe sputato in un occhio! Cosa potevo dire? “La bilancia è
sbilanciata, tu la devi riportare in equilibrio”, ma a quello la
bilancia gliel’avevano sbilanciata una volta per tutte. Come diceva
Fichte, che di filosofia se ne intendeva, almeno così pensava lui:
“Chi è stato defraudato di quanto gli tocca in base al contratto
sociale, ha il diritto di andarselo a riprendere”, e lo diceva uno che
sicuramente non era né un rivoluzionario e nemmeno un progressista.
La soglia del senso comune ci impedisce di pensare ad una società che
sia priva del carcere, e fa bene, secondo me, perché il senso comune
non è sempre da mettere sotto i piedi, in quanto una società con
queste condizioni di distribuzione dei rapporti produttivi, con queste
condizioni dei rapporti culturali e dei rapporti politici, non può
fare a meno del carcere. E pensare ad una possibile eliminazione del
carcere da questo contesto sociale è una bella utopia che può soltanto
alimentare le pagine dei libri di quelli che, lavorando
all’Università, scrivono pagati dallo Stato.
Il resto, secondo me è veramente perdita di tempo, per lo meno per
quello che ho potuto capire. Può essere che ho capito male queste tesi
sull’abolizione del carcere, eppure mi sembra di avere notato alcuni
di quelli che oggi sono sostenitori dell’abolizionismo, gente che
conosco personalmente, essere gli stessi che ieri si dicevano non dico
stalinisti, ma comunque sostenitori delle chiacchiere del materialismo
storico sul carcere, cioè sostenitori delle analisi del carcere come
realtà strettamente legata allo sviluppo della formazione produttiva,
ecc. Questi stessi sono oggi per l’abolizione del carcere perché
questa ipotesi è di natura anarchica, libertaria almeno, e non è di
natura autoritaria o stalinista. A prescindere dalle straordinarie
capacità di evoluzione politica, con cui questa gente non finirà mai
di stupirmi, persisto nel dire che, comunque, questa tesi
dell’abolizionismo è sempre una stupidaggine, anche se la si qualifica
come anarchica. E perché non potrebbe esserlo? Forse che gli anarchici
non dicono stupidaggini? Non è una strana cosa. Io conosco un sacco di
anarchici che dicono stupidaggini. Secondo me non esiste una
equivalenza tra anarchico e intelligente, l’anarchico non deve essere
per forza intelligente. Io conosco moltissimi anarchici stupidi. E
conosco molti poliziotti intelligenti. Che c’è di male? Non vi ho mai
trovato niente di strano in questo.
Sì. I l concetto non sembra difficile, perché l’abolizione, almeno per
quello che ho capito io – che magari ho capito male, e siamo qua per
chiarirci eventualmente le idee – l’abolizione di una parte di un
contesto è una ablazione. In altre parole, prendo una parte e la
tolgo. Dalla società, di cui il carcere è oggi componente
insostituibile, dovrei dunque, in questo momento, prendere il carcere
e toglierlo via, come si fa con la parte avariata di un tutto, che si
taglia e si butta nella spazzatura. Questo è il concetto
dell’abolizione. Abolire il carcere e sostituirlo con un altro tipo di
organizzazione sociale, la quale, per non essere un carcere sotto
altro nome, non deve prevedere né la sanzione, né l’applicazione delle
pene, né la legge, né un principio di coercizione, ecc. Quello che
forse non si vuole capire è questo: l’abolizione del carcere prevede
il capovolgimento della situazione normale che giuridicamente si viene
a creare fra la vittima e chi ha compiuto il reato, il cosiddetto
colpevole. Oggi, tra vittima e colpevole si opera un allontanamento,
che poi si fa separazione netta appunto con la carcerazione. La
vittima e il colpevole non si incontreranno mai più, anzi si
eviteranno per sempre. Io non vado di certo a trovare in quel di
Bergamo il gioielliere dove ho fatto una rapina. Quello, vedendomi,
chiamerebbe subito la polizia. Su questo non ci sono dubbi.
Cosa avviene invece nell’ottica dell’abolizione. Non si allontanano i
due soggetti del fatto previsto come “illegale”, al contrario si
mettono in contatto tra loro attraverso la contrattazione. Ad esempio,
li si mette in condizione di stabilire insieme qual è il danno e il
responsabile del fatto “illegale”, anziché andare in carcere,
s’impegna a ripagare il danneggiato, in denaro se questo è possibile,
oppure con un lavoro. Per esempio, c’è gente, pare, che si sia
accontentata di farsi dipingere la casa, non so, cose del genere.
Queste assurdità, secondo me, partono da un principio filosofico di
tipo diverso da quello previsto dal codice.
L’allontanamento tra “colpevole” e “vittima” è istituzionalizzato non
solo dalla struttura di dominio ma anche dalle singole situazioni
concrete, tranne i casi in cui il passaggio alla cosiddetta situazione
illegale venga determinato da passioni o sentimenti difficilmente
controllabili, diciamo, nella maggior parte dei casi, non solo il
colpevole cerca di fuggire per salvare il malloppo, o la pelle, ma
cerca di avere meno contatti possibile con la vittima. Poi, c’è anche
l’altro aspetto dell’allontanamento, quello istituzionalizzato con
l’intervento del giudice, dell’avvocato, del tribunale, del carcere.
Quindi, allontanamento non solo dalla vittima ma dalla società, con
l’appendice di quella particolare attenzione impiegata nei casi in cui
il colpevole ritorna nella società. Per evitare un contatto troppo
brusco, molte volte ci sono precise pratiche di polizia: si esce dal
carcere, immediatamente arriva la pattuglia della polizia, ti
impacchetta e ti porta in questura, vieni identificato un’altra volta.
Tu sei ormai un uomo libero perché hai finito la pena da scontare, ma
loro non sono contenti. Da qui le espulsioni da una determinata città,
insomma, tutte le pratiche necessarie per allontanarti.
L’abolizione tutto questo non lo prevede. È un concetto più complesso
quello dell’abolizione, di quanto non posso aver fatto capire qui,
adesso. Resta però in esso questa curiosa anomalia logica: l’ablazione
è pensabile in teoria, ma praticamente irrealizzabile in un contesto
sociale in cui il carcere è, ovviamente, componente essenziale.
Viceversa, la distruzione del carcere si lega evidentemente a un
concetto rivoluzionario di distruzione dello Stato e, quindi, si
inserisce all’interno di un differente processo di intervento nelle
lotte. Insomma, il discorso che facevamo prima per essere capito fino
in fondo, deve essere svuotato da ogni ostacolo efficientista che
spesso lo fa vedere in modo errato. Le lotte alle quali partecipiamo,
e anche le conseguenze di queste lotte, non possono essere sempre
sottoposte al ragionamento di ottenere in cambio qualcosa per quello
che facciamo, ottenere per forza dei risultati dalle cose che mettiamo
sul tappeto. Al contrario, molto spesso, non siamo in grado di
valutare le conseguenze delle lotte alle quali partecipiamo. C’è una
diffusione relazionale, di larghissimo raggio, le cui estreme
periferie di affievolimento non sono riscontrabili da parte nostra.
Non abbiamo cognizione di quello che può succedere, a livello di
persone che si muovono, di altri compagni che faranno altre cose,
modificazioni di rapporti, modificazioni di presa di coscienza, tutto
quello che viene dopo, quando a noi sembra che tutto sia finito.
Questa sera siamo qua, stiamo partecipando a questa discussione e, per
me, anche questa è una lotta, perché non mi va di discutere
semplicemente per ascoltare il suono della mia voce, perché sono
convinto che nella coscienza di ognuno di voi stanno entrando
concetti, come nella mia coscienza sta entrando la gioia di essere qui
con voi, di sentire la vostra presenza fisica vicino a me. Stiamo
discutendo di qualcosa che mi sta a cuore e io porterò con me questo
patrimonio che mi state regalando, così come, penso, che io possa
darvi qualcosa che porterete con voi e che domani potrà dare i suoi
frutti, impensati, in una situazione diversa, in un contesto diverso,
e questi sono i risultati non quantitativi, non efficientisti, i quali
hanno un loro senso e ce l’hanno nella pratica, non nell’astrattezza
dell’utopia o della teoria. Ce l’hanno nelle cose che facciamo, nelle
trasformazioni che riusciamo a realizzare. In questo senso intendo
parlare di distruzione del carcere, perché nel momento che ci mettiamo
in quest’ottica e realizziamo piccole lotte, magari come la
discussione di questa sera, o come altre cose che non è il caso di
elencare e che potremmo sviluppare domani o negli anni futuri,
conseguentemente trasformiamo questa realtà. Il carcere diventa allora
uno degli elementi di questa trasformazione, e trasformazione in
questo contesto vuole dire distruzione, distruzione parziale in vista
di quella che deve essere la distruzione finale che è distruzione
dello Stato. Capisco che questo concetto può essere considerato
eccessivamente tirato per i capelli o eccessivamente filosofico, però
nel momento che ci riflettiamo sopra diventa chiaro, perché diventa
modello di comportamento per tutte le azioni che facciamo
giornalmente, per il nostro modo di rapportarci con chi ci sta vicino,
con i nostri familiari, con chi ci sopporta tutti i giorni, con chi ci
vede una volta tanto.
Anche questo fa parte del progetto rivoluzionario. Non esistono
infatti due mondi: il rapporto che ho con la mia compagna è una cosa,
il rapporto che ho con i miei figli è una cosa, il rapporto che ho con
i pochissimi compagni rivoluzionari che ho incontrato in vita mia per
sconvolgere il mondo è una terza cosa, tutto assolutamente separato.
Non è vero, non è così. Se io sono uno stronzo nei miei rapporti
sessuali, non posso essere un rivoluzionario, perché questi rapporti
li trasferisco immediatamente in un contesto più ampio. Potrò
ingannare una, due, tre persone, poi arriva la quarta che mi presenta
il conto e non riesco ad ingannarla. Ci deve essere per forza questa
unità di intenti, questa affinità elettiva che mi lega con tutte le
azioni, che non posso separare fra di loro, in qualsiasi contesto, in
qualsiasi cosa faccio. Se io sono stronzo, prima o poi finisce per
diventare evidente.
Ma torniamo al nostro argomento dal quale mi pare che ci siamo
allontanati non poco.
Veniamo a tutta la teoria sul carcere, al perché esiste la pena, al
perché esiste la struttura giudiziaria che supporta e rende possibile
la pena, e su questo penso che tutti voi che mi ascoltate ne sapete
più di me.
Penso che sia opportuno trovarci insieme su di una linea di
ragionamento molto semplice: il concetto di pena è basato su un
principio essenziale, esso è una privazione a cui viene sottoposta una
determinata persona per non avere assunto un comportamento secondo le
regole prefissate. Ora, se stiamo attenti, questo concetto si applica
a tantissime cose, anche ai rapporti interpersonali, però riceve una
particolare sanzione soltanto nel caso in cui ci si trova di fronte a
una struttura giudiziaria, a una struttura statale in grado di fare
mantenere quella determinata sanzione secondo certe regole prefissate
o, comunque, nell’àmbito di queste regole.
Con la pena lo Stato cosa vuole raggiungere? Non solo lo Stato di
oggi, che dentro certi limiti conosciamo, ma lo Stato in generale per
come si è sviluppato nel corso almeno degli ultimi trecento anni. Il
dominio, che una volta non si chiamava Stato, cosa vuole raggiungere?
Prima di tutto vuole sottoporre il cosiddetto colpevole ad una misura
fisica di controllo più accentuata di quelle impiegate correntemente
nella cosiddetta società libera.
Ancora una volta devo dire che non ho competenze specifiche in questo
campo, ma, per quello che posso avere letto e che, ripeto, non è molto
e forse non è nemmeno aggiornato, i processi di controllo sono
affidati adesso, in massima parte, a quelle che sono le possibilità
considerevoli della telematica, della raccolta dei dati, ecc. In fondo
in fondo, la schedatura universale, che è in atto (ho visto, per
esempio, che stanno schedando anche attraverso le bollette della
luce), è, come dire, una strategia aggirante che prima o poi pesca
tutti i pesci, per cui saranno pochissimi coloro che riusciranno a
scappare. Ma una schedatura del genere è solo un’approssimazione. Ci
sono paesi più avanzati in questo campo, con schedature
efficientissime, ed anche in questi paesi ci sono sempre spazi per una
attività extralegale, se non proprio “fuorilegge” in termini concreti.
Il progetto del dominio è certamente un progetto onnicomprensivo,
intende cioè includere tutti quanti in questa schedatura. Più il
controllo diventa efficace in senso preventivo, più lo Stato diventa
padrone del territorio. Non a caso, ad esempio, si dibatte oggi la
questione della mafia, faccenda al limite tra realtà e mito, in cui
non si sa bene dove l’una sconfini nell’altro e viceversa. Non so se è
il caso di prendere questo argomento, il quale, anche se affascinante,
è poco consistente secondo me, comunque non c’è dubbio che si tratta
di un argomento sfruttato in questo momento anche per misteriosi fini
di ricostituzione degli equilibri nei confronti di parti politiche
avverse... Comunque, a prescindere da questi fatti, la costituzione di
un controllo forte e preventivo renderebbe molto meno insostituibile
l’esistenza del carcere, almeno per come lo conosciamo noi. La pena
quindi assolve anche ad una funzione di controllo, e più questa
funzione si allarga, diventando, oltre che successiva, preventiva, più
il carcere tende a modificarsi.
Teniamo presente che il carcere di oggi è molto diverso da quello di
vent’anni fa. Negli ultimi vent’anni è cambiato molto di più che nei
cento anni precedenti. Il processo di sviluppo del mondo carcerario
sta in questi termini. Carceri particolari, come sono le cosiddette
carceri modello, oggi non si differenziano molto dagli speciali. Io
non voglio fare qua una discussione di lana caprina, però, in effetti,
i controlli particolari nelle carceri speciali c’erano, ma non
costituivano l’elemento essenziale di differenziazione. Io sono stato
in un carcere speciale come Fossombrone, in epoca in cui erano in
funzione carceri del genere e ho avuto l’articolo 90 per diversi mesi
e so cosa vuol dire: perquisizione ogni mattina, nudi, e così via,
decine di guardie davanti la porta ogni mattina, e tutto il resto.
Tutti questi aspetti sono certamente spaventosi però non è là il punto
centrale. Un carcere efferatamente speciale oggi non esiste. Anche
nelle cosiddette carceri speciali, oggi, in fondo in fondo, ci saranno
forse ore di socialità in meno, il passeggio sarà a due o a tre,
qualcosa del genere, mentre in futuro tutto potrebbe essere molto
peggio. Perché?
Una volta ottenuto questo controllo sul territorio si ridurrebbe di
molto la popolazione carceraria cosiddetta spontanea, germinata
spontaneamente, ci sarebbe una sorta di depenalizzazione di molti
reati, un differente funzionamento dell’istituto della carcerazione
preventiva (magari controllato da questi sistemi elettronici tipo
“trasponder”, che sono oggi impiegati ad esempio in America, in alcuni
Stati abbastanza diffusamente, braccialetti elettronici che misurano
se uno esce dal perimetro assegnato e tutte queste cose qua). Allora
sì che si costituirebbe una reale ed assoluta differenza fra le
carceri vere e proprie e il resto del mondo carcerario che
continuerebbe ad esistere, in quanto nelle carceri vere e proprie,
l’isolamento, la tortura psicologica, i camici bianchi, prenderebbero
definitivamente il posto delle macchie di sangue nel muro, e in esse
si applicherebbe la scienza per ottenere la distruzione totale di quei
veri e propri “fuorilegge” che non intendono venire a patti con lo
Stato. In questo senso si può ipotizzare una evoluzione del carcere. E
io penso che gli studi che si continuano a fare, di cui ho sempre
notizia, per quanto abbia una specie di ritrosia nel leggere queste
cose, credo che lavorino in quest’ottica, cioè di costruire quel
controllo che renderebbe sostanzialmente inutile il carcere, almeno
per come lo conosciamo noi. Infatti, i luoghi di distruzione fisica,
di annientamento, che lascerebbero in funzione, non ci sarebbe più
nemmeno la necessità di continuarli a chiamare “carceri”, si potranno
chiamare in qualsiasi maniera. Poniamo, basta affermare che se uno si
comporta in un certo modo è pazzo e allora lo si chiuderà in un
manicomio. E se poi la legge impedisce di chiamare questi luoghi col
nome di manicomio, si chiameranno “porco d’un dio”, però saranno posti
dove si ammazza la gente.
La legge, quindi, come dicevo prima, vuole controllare, ma anche vuole
cercare di condurre o di ricondurre il reo, insomma colui che si è
macchiato di determinati cattivi comportamenti fuori della regola,
all’interno di un concetto di normalità. Vuole cioè applicare, nei
confronti di chi ha avuto questi comportamenti differenti, questi
comportamenti diversi, una tecnica ortopedica, in altre parole lo
vuole sistemare, vuole renderlo non pericoloso, vuole che quel suo
comportamento difforme non si ripeta, non causi alla comunità il
danno, o il presunto danno, che ha causato.
Ma, nello stesso tempo, e qua emerge la più grossa contraddizione fino
ad oggi non superata, nello stesso tempo, la struttura statale
giudiziaria, con tutte le sue sfumature, pur accettando un’ideologia
ortopedica – e vedremo entro quali limiti l’accetta – si rende conto
che quello stesso strumento che applica e realizza la possibilità
della pena, fa aumentare la pericolosità del diverso, cioè lo rende
più pericoloso. Si ha pertanto questa contraddizione: da un lato, con
la pena, si vuole ricondurre il deviante all’interno di una dimensione
di normalità e, nello stesso tempo, questa situazione di pena, il
carcere in primo luogo per intenderci, aumenta la sua pericolosità.
Cioè a dire, prepara l’individuo come elemento maggiormente
qualificato per accedere ad un processo di accentuazione della
pericolosità sociale che prima poteva essersi manifestata anche in
maniera accidentale.
La distinzione cui ho fatto riferimento, si basa sull’esistenza, non
certamente identificabile in modo netto, ma sufficientemente visibile,
di una minoranza di ribelli che, all’interno delle carceri,
costituisce la vera e propria comunità di fuorilegge. Questi
irriducibili individui non hanno per nulla le caratteristiche
politiche che un dibattito degli anni Settanta cercava di cucire loro
addosso.
Io penso che oggi la distinzione tra detenuti politici e detenuti
comuni, in piedi per tanto tempo e causa, a mio avviso, di tanti
danni, distinzione che è stata proposta e sostenuta qualche volta
anche da compagni anarchici, sempre parlando nell’àmbito degli anni
Settanta e della prima metà degli anni Ottanta, distinzione che poi è
stata sposata anche dal potere per gestire i suoi equilibri, eccetera,
ecco, questa distinzione, non ha ragione di esistere. In galera, per
esempio, quando si chiama il secondino, i politici lo chiamano
“agente” e i comuni lo chiamano “guardia”. Certo, questa differenza fa
capire subito già dall’urlo: “agente”, che là ci deve essere un
compagno. Ecco, questo fatto così marginale, del tutto innocuo, già
opera una distinzione fittizia che spesso, trasferita in altri ordini
di formalismi, veniva mutuata dal potere e trasformata in strumento di
recupero.
Secondo me, una distinzione del genere, quella cioè tra detenuti
politici e detenuti comuni, non ha mai avuto validità reale, se non
nella prospettiva di strumentalizzare una parte della popolazione
carceraria per scopi quantitativi: crescita del partito militante,
militare e militante, possibilità all’interno delle carceri di gestire
certi rapporti di forza, intenzione di utilizzare come massa di
manovra il sottoproletariato detenuto. Al limite, in certi casi,
alcuni elementi particolari sono stati utilizzati come esecutori di
basse opere di giustizia, assassinii in termini poveri, ammazzare
gente, mi sono spiegato? Questo è stato fatto. Sono responsabilità
storiche che alcuni personaggi dirigenti i vecchi partiti combattenti
di matrice marxista-leninista, oggi in libera circolazione, si sono
assunte. Anche compagni nostri sono stati ammazzati in questo modo,
non perché si fosse operata quella distinzione, ma strumentalizzando
gli effetti di una distinzione del genere; perché quella distinzione
metteva a disposizione di alcuni, che si autodefinivano detenuti
politici, la possibilità di utilizzare lo strumento dei cosiddetti
detenuti comuni come massa di manovra, per contrattare con il carcere,
per contrattare col Ministero, per ottenere certi risultati, spesso
per fare la guerra in un bicchiere d’acqua. Questo corrispondeva, da
una parte, a una pratica militare di gestione del potere, o del
“contropotere” (ognuno ha i suoi gusti) e, dall’altra parte, a una
centralità della classe operaia fuori (contraltare della centralità
dentro del cosiddetto proletariato prigioniero, guidato dal partito
che doveva indirizzare la classe operaia verso la sua futura
liberazione). Secondo me, oggi queste tesi sono veri e propri reperti
archeologici. Non corrispondono alla realtà, per lo meno spero che non
vi corrispondano, per come la capisco io, ma può essere che mi
sbaglio.
È bene aprire qui una parentesi per chiarire il problema della nostra
opposizione ad una lotta per l’amnistia, problema che qualche anno fa
ebbe a sollevare non poche obiezioni, anche fra gli anarchici.
Oggi la situazione si è modificata per quanto riguarda i rapporti
all’interno del carcere, fra i detenuti che persistono su posizioni
impropriamente definite irriducibili e quelli che sono entrati in
contrattazione. All’epoca in cui uscì il mio libro: E noi saremo
sempre pronti a impadronirci un’altra volta del cielo [Catania
1984] – libro che come molti ricorderanno era diretto appunto a
criticare la possibilità di una lotta “per ottenere l’amnistia”, credo
tra il 1985 e il 1986 – la tesi dominante era quella contenuta nel
cosiddetto manifesto di Scalzone sostenente, appunto, una proposta di
lotta per l’amnistia. La critica si sviluppò in seguito anche
all’interno del movimento anarchico, con le malcomprensioni di sempre.
Ma questo fu un effetto, diciamo, secondario, non era questo lo scopo
del libro. Comunque, la cosa importante, che resta ancora oggi
importante, è che nessuno può arrogarsi il diritto di dire: “Compagni,
la guerra è finita”. Prima di tutto perché nessuno l’ha dichiarata, e
quindi, fino a prova contraria, se non c’è nessuno che ha dichiarato
questa guerra, non si vede perché poi qualcuno ne possa decretare la
fine. Non c’è uno Stato che ha fatto una guerra o un gruppo militare
che ha avuto l’idea di fare una guerra. A ragionare in questo modo si
resta all’interno di una logica militarista, una logica di gruppi che
si contrappongono o decidono di non contrapporsi. Per noi, nessuno può
dire: “La guerra è finita”. E ancor meno può dire ciò quando la
dichiarazione è fatta solo per dare fondamento alla propria
desistenza.
Se io non me la sento di continuare, dato che nessuno può essere
obbligato se non se la sente di continuare, dico: “Amici miei, un uomo
è fatto di carne, non è che può continuare all’infinito. In questo
contesto, non me la sento di continuare, che devo fare? Devo firmare
una carta? Non faccio atti impuri, non faccio arrestare compagni,
semplicemente io sulla mia pelle firmo una dichiarazione di
desistenza”. Questa ipotesi io l’ho sempre considerata legittima,
perché uno non può essere obbligato a continuare se non se la sente
più. Ma la desistenza non è più legittima quando io, per darle un
fondamento oggettivo, cioè per darle una validità per tutti e su
tutti, la giustifico affermando: “Siccome la guerra è finita, non sono
in grado di continuare”. E no, non sono più d’accordo, perché questo
che cosa comporta? Che tutti gli altri, fuori e dentro le carceri, per
i quali non è vero che la guerra è finita, o che comunque per i quali
questo concetto di “finire la guerra” è argomento di discussione, si
sentono portati a ritenere anche loro che la guerra è finita, visto
che lo stanno dicendo tutti che la guerra è finita, e anche loro,
desistenti o non desistenti, concludono per la stessa cosa. E questo a
cosa contribuisce? Che io, per giustificare la mia scelta personale e
soggettiva di non continuare la lotta, spingo anche gli altri a non
continuare la lotta, e mi pare una cosa indecorosa.
Ora, le condizioni attuali sono radicalmente modificate, secondo me,
non nel senso che questa indecorosità non c’è più, ma nel senso che è
passata di moda, in quanto adesso sono intervenuti altri
atteggiamenti. Non si dice più: “La guerra è finita”, che per altro
non c’è nemmeno motivo di dirlo, in quanto bisognerebbe dire: “La
guerra non è mai cominciata, la guerra che abbiamo condotto, sotto
certi punti di vista, non era una vera e propria guerra sociale”.
Quante sarebbero le considerazioni da fare. Ma la maggior parte
preferisce dedicarsi all’astrologia o, qualche volta,
all’assistenzialismo carcerario. Eppure, volendo, alcuni di loro
potrebbero dire: “Forse su certe cose ci siamo sbagliati, forse in
certi dibattiti che si sono fatti a partire dagli anni Settanta,
andavano accettate altre tesi”. Che sarebbe una bella considerazione
critica. Penso ad uno dei dibattiti di Porto Marghera, dove si
discusse tra l’altro della morte di Calabresi, dibattito
importantissimo, di cui nessuno parla perché praticamente nessuno sa
niente, in cui, per la prima volta in Italia, comparvero due
direttrici di pensiero sul modo di gestire le azioni, ma forse si
tratta di problemi che non interessano tutti... E, tra l’astrologia e
l’assistenzialismo, ecco che si avanza un’altra ipotesi: “La guerra
bisogna ricominciarla, ma con altre armi, non più con la critica delle
armi, ma con le armi della critica”. A chiacchiere, ridiventano pronti
ad ammazzare il mondo. Per quello che so io, queste chiacchiere
diventano gestione del quotidiano. Ecco che nascono dappertutto centri
di elaborazione delle chiacchiere, centri di gestione e di
elaborazione dell’informazione, radio (specialmente le radio, che sono
importantissime, dove tra una musichetta più o meno balzana e
discussioni pseudo-culturali altrettanto infondate, si veicolano
concetti di impadronimento del territorio), occupazioni al limite con
la contrattazione e occupazioni al limite della sopravvivenza nel
ghetto miserabile e chiuso in se stesso. Così si ricomincia a sognare
allargamenti sul territorio. Con questo ritrovarsi all’interno di
concetti vecchi, riverniciati a nuovo, si rimette in moto la stessa
gestione di sempre, la gestione autoritaria, centralizzata, partito
più o meno militante (non si può dire nemmeno così), e viene fuori un
nuovo tessuto. Per ora sono chiacchiere, se sono rose fioriranno. Io
credo che stia succedendo una cosa del genere, non è il caso di dare
indicazioni precise, sappiamo tutti bene di cosa sto parlando. Queste
chiacchiere comportano alcuni aspetti interessanti: riciclaggio di
vecchie cariatidi in disuso... certo anch’io sono una vecchia
cariatide, per carità... ma continuo ad avere idee che a me sembrano
interessanti, questa è la mia opinione, forse mi sbaglio.
Resta un nucleo di compagni che sono in carcere e che sono ancora
indisponibili ad entrare in contrattazione, nei confronti di questi
compagni può andare la nostra solidarietà. Ma questo non basta. Non
può bastare a chi ha sulle spalle secoli di carcere. Occorrerebbero
proposte dettagliate, indicazioni che pongano mano alla distruzione
concreta delle carceri. Non è visibile in questo momento, almeno così
mi sembra, un progetto di liberazione che ponga a proprio fondamento
la distruzione delle carceri. Bisognerebbe ricominciare daccapo.
Insistendo su una sorta di coabitazione col potere si alimenta la
desistenza della lotta. E non si tratta semplicemente di un modello di
intervento nel territorio che io non condivido ma che sto a osservare
nel frattempo che faccio altre cose, se ne sono capace. Si tratta
purtroppo di un meccanismo che si rimette in moto e che potrebbe dare
i suoi frutti, frutti per noi non accettabili, ma frutti legittimi.
Per questo la situazione oggi è diversa e non scriverei senza cambiare
nulla lo stesso libro contro l’amnistia. D’altro canto, non c’è
possibilità concreta di ottenere qualcosa in termini di manifestazione
di solidarietà, come potrebbero essere, che ne so, centomila cartoline
indirizzate al presidente della Repubblica. Queste cose, di regola,
lasciano il tempo che trovano, non hanno mai significato molto. Sì, le
lettere, i telegrammi, significano qualcosa per i compagni, che magari
non si sentono abbandonati, perché fa piacere a chi sta in galera
ricevere lettere di solidarietà, ecc. Poi, dentro certi limiti, la
cosa impressiona la struttura carceraria, impressiona il singolo
secondino, il quale magari quando la sera passa a controllare non ti
tiene la luce accesa tre secondi, ma la tiene accesa un secondo solo,
perché si spaventa e dice: “Questo ha ricevuto venti telegrammi,
magari uno mi aspetta qui davanti e mi spacca la testa”. Cose
importantissime, per carità, non dico di no. Si tratta di fare
qualcosa, una pressione, sia pure minima, di mettere in moto una
deterrenza forse importante, ma la realtà è che purtroppo questi
compagni hanno davanti a loro ancora tanti anni, guardando la cosa
realisticamente.
Il dibattito sul problema dell’amnistia non fu comunque un semplice
approfondimento teorico. Divenne ben presto strumento per realizzare
alcune azioni pratiche, tentativo di suggerire un certo modo di
intervenire nei riguardi del problema carcere, e ha avuto, e continua
ad avere, la sua importanza per cercare di impostare il problema
carcerario da un punto di vista rivoluzionario. Le analisi dirette
all’accettazione potevano, e potrebbero, diventare funzionali per
giustificare la posizione di determinate scelte politiche nei
confronti del carcere. Macroscopico è stato, secondo me, l’errore
commesso con l’accettazione della lotta per l’amnistia, lotta che
venne proposta, purtroppo sconsideratamente o ignorantemente, anche da
non pochi compagni anarchici, i quali, non sapendo cosa fare, e non
rendendosi conto dei rischi impliciti in quella scelta, decisero di
sostenerla. Si trattò di un grave errore politico e anche
rivoluzionario che, devo dire sinceramente, non ho mai commesso.
Ad esempio, la posizione nei confronti della legge Gozzini risultò
diversa in funzione delle analisi che avevano giustificato la scelta
favorevole alla lotta per l’amnistia. Scelta consequenziale per i
sostenitori dell’autorità rivoluzionaria, in quanto è ovvio che se uno
dice che il carcere è una espressione che si modifica in funzione
deterministicamente accertata del modificarsi della formazione
sociale, le proposte che la controparte mi avanza per poter adeguare
il mio comportamento all’evolversi storico della realtà, ad esempio la
legge Gozzini, a me vanno bene, e quindi le accetto, in vista di uno
spostamento della lotta in altri settori. Lo stesso per la
contrattazione sindacale. Quindi non vedo perché deve accadere
diversamente per la condizione carceraria. Queste che sembrano
innocenti elucubrazioni teoriche in sede sociologica, diventano poi
strumenti di scelte politiche ben precise che coinvolgono la vita, il
futuro di migliaia di compagni che stanno in carcere. Noi abbiamo
sempre sostenuto di essere contro l’amnistia, o meglio contro una
lotta per l’amnistia (che sono due cose diverse, quando un’amnistia ce
la danno la prendiamo, anzi).
Tornando alle contraddizioni insite nel concetto di pena e nelle varie
forme della sua applicazione, il quadro all’interno del quale si muove
ancora oggi il dibattito teorico sul carcere, resta prigioniero della
contraddizione di fondo vista prima, la quale è veramente
irrisolvibile.
Ora, in effetti, questa contraddizione si è acutizzata in epoca più
recente. Non che prima non esistesse, soltanto che prima la funzione
della pena, la funzione della struttura che applicava le pene e la
funzione della struttura carcere – poniamo quello che possiamo
definire il carcere antico, quindi intorno o prima del 1500 – erano
funzioni puramente conservative in attesa dell’applicazione di
determinate sanzioni, oppure funzioni puramente di separazione,
intendevano cioè separare determinate persone dal loro contesto
sociale. Dovete sapere che, per esempio, il famoso carcere di Venezia
“I Piombi”, nel Settecento, come si legge nelle Memorie di
Giacomo Casanova, era un carcere autogestito dai detenuti, cioè a dire
non esisteva dentro le mura del carcere nessuna custodia, la custodia
esisteva soltanto all’esterno, ed era uno dei carceri peggiori di
quell’epoca. Ma di già con la situazione de “I Piombi” siamo un po’
più avanti del 1500, siamo in pieno Settecento.
Il carcere antico aveva quindi una diversa funzione. Il carcere
moderno ha la funzione di “recuperare” – stiamo parlando di funzione
teorica –, riportare l’individuo all’interno di una condizione di
normalità. Tra queste due funzioni, quella antica in cui il carcere
era visto soltanto come un luogo in cui parcheggiare l’individuo,
perché nei suoi confronti si pronunciasse una data decisione (la pena
di morte, l’applicazione di determinate mutilazioni del corpo,
l’esclusione dal contesto sociale, la condanna ad un semplice viaggio
in Terra Santa, poniamo, che equivaleva alla pena di morte, viste le
difficoltà del viaggio nel 1200-1300) e la funzione moderna, tra
queste due funzioni del carcere c’è un passaggio che è costituito dal
cosiddetto carcere delle case del lavoro, il carcere dell’inizio del
Settecento, quando si incominciano a vedere le prime strutture
carcerarie che hanno una funzione di rieducazione al lavoro, di
avviamento.
Dentro certi limiti di natura esclusivamente culturale su questo
argomento c’è in corso un dibattito teorico che lascia il tempo che
trova e che non è il caso di approfondire adesso. Posso solo dire che
la struttura carceraria, poniamo come venne realizzata da Bentham col
suo Panoptico, questa struttura architettonica del carcere in cui un
solo custode poteva controllare contemporaneamente tutti i bracci del
carcere – e tenete presente che una simile struttura esiste ancora
oggi in moltissimi carceri, per quanto un po’ modificata –, questa
struttura vedeva la luce nel momento stesso in cui iniziava la
rivoluzione industriale. Alcuni vedono un parallelismo storico tra
questi due sviluppi: nasce l’operaio, cioè il lavoratore all’interno
dei primi impianti industriali, nasce la figura moderna del carcerato.
Si sviluppa la condizione industriale, si sviluppa, con le sue
trasformazioni, il carcere. Questa è una delle tesi che vengono
sostenute, che possono essere accettate, e possono essere non
accettate. Io ci vedo, dietro questa discussione, che ha attraversato
tutti gli anni Settanta, una specie di operaismo centralista, visto
nell’ottica dell’interpretazione del carcerario come proletariato
prigioniero, ecc. Non so se per voi queste parole hanno un senso.
Oggi, forse, non ce l’hanno più, per noi era pane quotidiano, diciamo,
dieci, quindici anni fa, quando abbiamo dovuto affrontare non pochi
dibattiti nel tentativo disperato di chiarire che questa centralità
dell’operaio non c’era “fuori” e non si vedeva perché ci dovesse
essere “dentro”. Per cui la centralità di un presunto e mai
identificato “proletariato prigioniero”, dentro le carceri, era un
fantasma. Questo comunque appartiene alle discussioni del passato.
Facciamo una piccola parentesi, che forse può essere utile.
Parallelamente a questo discorso sulle carceri, si è sviluppato un
discorso sul diritto. Perché la norma di comportamento? Perché la
legalità della norma? Evidentemente l’uomo ha cercato sempre di
pensare la norma astratta come valida a prescindere dalla contingenza
del momento, a prescindere dall’avvenimento storico o dalle condizioni
in cui essa può essere applicata, e ciò per salvarla dalle obiezioni
umane che possono venir fuori. E quindi questa “santità”, questa
sacralità del diritto, è stata più volte maneggiata in modo diverso.
Diciamo, la tesi più ampiamente dibattuta è quella che si richiama ad
un fondamento naturale della norma giuridica. Un diritto naturale che
si contrappone ad un diritto positivo, cioè a dire al diritto
costruito dall’uomo e registrato nelle leggi. Il diritto naturale è
quello che l’uomo ha come essere munito di ragione, quindi si tratta
di un diritto naturale specifico dell’uomo, e questa è una prima tesi
del cosiddetto giusnaturalismo. La seconda tesi parla di un diritto
naturale che tutti gli esseri animati hanno in quanto tali, e quindi
si tratta di un diritto che la natura conferisce a tutti gli esseri
animati. La terza tesi parla di un diritto naturale in quanto voluto
da Dio, e questa è la tesi originaria del giusnaturalismo, che era la
vecchia tesi che si può leggere nella famosa tragedia di Sofocle,
L’Antigone, dove Antigone dice: “Io sfido lo Stato perché la
pietas familiare è una legge naturale voluta da Dio ed è superiore
alle leggi dello Stato”. Queste posizioni oggi hanno ricevuto ampie
critiche, più o meno risolutive, mentre sussiste la concezione del
naturalismo nel diritto, quindi del giusnaturalismo, come tesi che
regge la sacralità della norma.
In un modo o nell’altro, che la sacralità della norma venga fuori dal
formalismo giuridico voluto dalla dottrina positiva, o invece da una
presupposta originaria sacralizzazione della norma voluta da Dio,
voluta dal fatto che esiste una legge intrinseca nello svolgimento
della storia degli esseri animati, oppure voluta da una legge
intrinseca che esiste nello svolgimento della storia dell’uomo, nello
svolgimento delle vicende della ragione umana (finalismo storico), non
cambia nulla. C’è sempre il tentativo, in chi sostiene queste tesi, di
trovare una base solida, uno zoccolo duro su cui fondare il proprio
castello di comportamenti, il proprio castello delle regole.
Realizzato il quale, costruito il castello, chi si trova ad essere
fuori da questa cerchia ben recintata, si trova ad essere
legittimamente un candidato al carcere, alla segregazione, alla
esclusione o alla morte, a seconda dei casi.
Ora, la tesi che più ci interessa, perché è ancora oggi sul tavolo,
quindi ancora oggi oggetto di dibattito, di approfondimento, è la tesi
del diritto naturale, cioè connaturato alla ragione dell’uomo come si
realizza nella Storia. Questa tesi è importante perché permette,
all’interno di se stessa, alcune interessanti modificazioni, cioè a
dire non è una tesi cristallizzata nella volontà di Dio, valida per
sempre, ma è una tesi che cambia, in quanto legata agli avvenimenti
della storia. Si tratta di una tesi che si è sviluppata con pienezza
proprio nel Settecento, con l’Illuminismo, una tesi che ha tutte le
colpe, tutti i limiti dell’interpretazione filosofica illuministica,
in quanto è una tesi che tiene presente due elementi essenziali:
primo, la Storia, secondo, la Ragione. La Storia è intesa qui come
retta al proprio interno da un ordine, da uno sviluppo in senso
progressivo, cioè nel senso del progresso, quindi in grado di muovere
da una situazione di maggiore caos e animalità, di maggiore
pericolosità, verso una situazione di maggiore umanità, di minore
pericolosità. Diceva Bovio: “La Storia va verso l’anarchia”, e molti
anarchici, almeno della mia generazione, l’hanno ripetuto. Io non ho
mai pensato possibile una strada così diritta, per cui su questo
argomento ho avuto considerevoli polemiche. Io non sono affatto sicuro
che la Storia vada verso l’anarchia. Parallelamente a questa lettura
della Storia in senso progressivo, abbiamo un’altra venatura in questo
bellissimo discorso illuminista, poi positivista, poi idealista, poi
storicista, insomma, tutto elaborato nell’accademia del potere, tutto
all’interno delle Università, tutto all’interno delle aule dove si
studia di storia e di filosofia, tutto all’interno di questi luoghi
dove lavorano i fornitori delle patrie galere. E qual è quest’altra
venatura? È la venatura della ragione. Perché la Ragione ha sempre
ragione? Non lo so. Ha sempre ragione per condannare tutti. Si
condanna la gente alla sedia elettrica con la ragione, non esiste uno
che viene condannato a morte senza ragione, ci sono mille ragioni per
condannare la gente a morte e c’è sempre una ragione per questa
condanna, non esiste una condanna senza ragione. Io sono entrato in
galera tante volte, con ragione, la loro ragione.
Si è detto che il nazismo, realizzato in Germania negli anni Trenta e
Quaranta, era una esplosione di irrazionalità, cioè di mancanza di
ragione. Ecco, io non ho mai pensato possibile una cosa del genere. Il
nazismo è stato l’applicazione estremamente consequenziale della
ragione, cioè la ragione portata alle sue naturali conseguenze, la
ragione hegeliana dello spirito oggettivo che si realizza nella
Storia. E, a questo riguardo, il discorso più logico è stato fatto da
un filosofo italiano, è stato fatto da Gentile in una conferenza
tenuta a Palermo dove ha fatto riferimento alla forza morale del
manganello. Il manganello, colpendo in nome della ragione, ha sempre
ragione, e la violenza dello Stato è violenza etica, perché lo Stato è
etico.
Questi ragionamenti possono sembrare stupidi, ma stupidi non sono
perché costituiscono la radice su cui getta il proprio fondamento il
cosiddetto progressivismo moderno, così come l’abbiamo, per esempio,
visto nel partito comunista, nel partito dei lavoratori, nei
cosiddetti movimenti rivoluzionari che nascevano da matrice marxista,
e anche nella destra, nei movimenti della destra. Solo che, mentre la
destra, per motivi suoi di identità, si impacchettava in un
irrazionalismo di maniera (bandiere, simboli, discorsi sul destino, il
sangue, la razza, ecc.), gli altri si impacchettavano in un altro
razionalismo anch’esso di maniera: il progresso, la Storia,
l’avvenire, il proletariato che finalmente sconfiggerà la borghesia,
lo Stato che si estinguerà e, mi permetto di aggiungere, che non pochi
anarchici si sono inseriti in questo discorso, viaggiando in sintonia
con un simile grossissimo imbroglio metafisico e ideologico,
specificando semplicemente che se la Storia non andava verso
l’estinzione dello Stato, andava però verso l’anarchia e che lo Stato
bisognava estinguerlo oggi per arrivare prima all’anarchia. Sfumatura
ideologica che non spostava il contenuto del viaggio parallelo a
quello marxista, e ciò senza che a nessuno venisse in mente che ci
poteva essere un imbroglio all’interno del discorso della ragione, e
che questo discorso della ragione poteva servire come base e come
alibi per costruire la recinzione del diverso.
Ecco perché occorrerebbe leggere criticamente in modo più approfondito
il cosiddetto ottimismo degli anarchici, ad esempio l’ottimismo di
Kropotkin, per vedere quali sono i limiti di questo ragionamento, per
vedere in che modo ha agito, anche all’interno del positivismo
anarchico, specifico di Kropotkin ma anche di altri compagni, il
cosiddetto equivoco del “seme sotto la neve”. Queste sono tutte
suggestioni che sto sviluppando e che sembrano apparentemente lontane
dal carcere, ma che invece costituiscono il territorio teorico e
filosofico in cui oggi il carcere trova la sua ragione d’essere.
Si dovrebbe poter parlare anche dell’apparente posizione contraria del
volontarismo malatestiano, e del modo in cui questo non propone
soluzioni, se non inserite all’interno dello sviluppo “oggettivamente”
determinato della Storia verso l’anarchia. Io posso essere limitato,
la mia capacità personale può essere circoscritta, ma comunque la
Storia va verso l’anarchia, quindi, in ogni caso, se non succede oggi
succede domani. Allo stesso modo andrebbe visto, cosa che abbiamo
cercato di fare nel recente convegno che c’è stato a Firenze [cfr.
Individuo e insurrezione. Stirner e le culture della
rivolta, Atti del Convegno, Bologna 1993], quali sono i limiti
dell’individualismo stirneriano. Bisognerebbe verificare cioè se
questi limiti ci sono, e quali sono, essendo ovviamente diversi da
quelli malatestiani o kropotkiniani.
Quindi, il riassunto di questa prima parte della discussione, qual è?
Il carcere non è un abuso, non è una eccezione, il carcere è la
normalità. Lo Stato, costruendo le carceri, può quindi metterci in
carcere. Facendo ciò non fa una strana cosa, fa il suo lavoro, e non
lo compie in modo eccezionale, semplicemente fa il suo lavoro secondo
quelle che sono le condizioni necessarie perché venga fatto nel modo
previsto. Lo Stato non è uno Stato carcerario, è lo Stato e basta,
così come si esprime nell’attività economica, nell’attività culturale,
nella gestione politica, nella gestione del tempo libero e nella
gestione del carcere. Questi elementi non sono separati, non è
possibile fare un discorso soltanto sul carcere, non avrebbe senso,
perché sarebbe come parlare di un elemento estrapolandolo dal suo
contesto. Viceversa, calando questo elemento all’interno del contesto
che lo ospita e che gli fornisce, gli dà significatività, il discorso
diventa differente, ed è esattamente ciò che lo specialista non può
fare. Per questo siamo partiti dal discorso sullo specialista, perché
lo specialista è portato a parlare soltanto del proprio discorso,
soltanto del proprio argomento: “Dato che io so qualcosa soltanto sul
carcere, non vedo perché vi debba parlare di altre cose”.
Io credo che i fatti collettivi, se questa parola purtroppo ormai
caduta in disuso e in discredito ha ancora un senso, sono costituiti
da tanti momenti individuali, guai se dovessimo cancellare questi
momenti individuali nella loro capacità trasformativa della realtà per
annullarli in un momento superiore, quello che i marxisti definivano
sussunzione collettiva, sussunzione della società, guai. Si tratta di
processi intellettualmente terroristici da condannare. L’individuo ha
un momento che è suo, e il carcerato ha il suo momento, e non è
affatto simile a quello di un altro carcerato. Non sono assolutamente
d’accordo con chi dice che io che sono stato in galera lotto in
maniera più efficace di un altro che in galera non c’è stato. No,
perché io lotto diversamente da un altro che non è stato in galera e
altrettanto diversamente di un altro che ha fatto galera più di me, e
così via. E, viceversa, potrei incontrare un compagno che è capace di
suggerirmi, di farmi capire, di farmi sentire o immaginare o sognare
un tipo di lotta diversa, anche se non è mai stato in galera. Nessuna
specializzazione. Tenete presente le prime cose che si sono dette
questa sera: non c’è una professionalità, nessuno parla da professore,
ancora meno può parlare da professore di faccende di galera. Per
fortuna in questo campo non ci sono specializzazioni, non siamo
all’università.
Ritengo che tutti siamo delle individualità che si cercano, che si
incontrano, si allontanano, si avvicinano, movendosi sulla base di
affinità, anche transitorie, che possono scomparire, possono
intensificarsi. Siamo come una moltitudine di insiemi di atomi che si
muovono, i quali hanno fortissime capacità di essere penetrati
reciprocamente. Non si tratta di monadi senza, finestre, come diceva
Leibniz, non siamo isolati, ma abbiamo tutti una valenza individuale.
Solo tenendo costantemente presente questo momento ineliminabile si
può parlare di società, o di capacità di agire, di muoversi, di vivere
insieme, altrimenti qualsiasi società sarà sempre una galera. Se io
devo sacrificare una parte, sia pure minima, di questa mia
individualità in nome della Aufhebung, del superamento nel senso
hegeliano del termine, in questo caso, in nome di un principio
astratto... sia pure l’anarchia, sia pure la libertà, non sono
d’accordo. Ecco perché penso che il carcere sia certamente una
condizione estremizzata e quindi, come tutte le condizioni totali, le
istituzioni totali, faccia vedere meglio il proprio tessuto. È come se
tu una stoffa la tiri all’estremo, per cui prima di spezzarsi comincia
ad apparire la trama. Ecco, l’individuo sottoposto alle condizioni più
violente, fa vedere la trama con cui è fatto. Magari così scoprirà in
sé di avere elementi che in altre condizioni non avrebbe sognato di
avere. Ma resta sempre importante e fondamentale questo punto da cui
partire, che non ci può essere un elemento, un’idea, un sogno,
un’utopia, che possa cancellare questo momento individuale, in nome
del quale sacrificare questo momento individuale.
Ma torniamo al nostro argomento. Il carcere è la normalità dello
Stato, e noi che viviamo in una condizione sottoposta allo Stato,
vivendo in una condizione di vita quotidiana regolata dai ritmi e dai
tempi dello Stato, noi viviamo in un carcere. Questo carcere è stato
definito, a mio avviso in un modo non corretto ma interessante, come
carcere immateriale, cioè non visibile come carcere, che non ci
circonda in un modo così diretto e frastornante come le mura di un
carcere, però, allo stesso modo, un carcere vero e proprio, in quanto
viviamo costretti a subire o obbligati a imporre modelli di
comportamento non decisi da noi, semplicemente introiettati, nei
confronti dei quali possiamo fare poco.
Però il carcere, nello stesso tempo, è una costruzione, è un luogo, è
una ideologia, una cultura, un fenomeno sociale. Ha cioè una sua
identità, quindi, se da un lato lo dobbiamo portare fuori dalla sua
specificità, nello stesso tempo non possiamo diluirlo nella società,
non possiamo limitarci a dire: “Noi viviamo tutti in un carcere, la
mia posizione non cambia nel momento che valico quella benedetta porta
e mi ritrovo in una cella spoglia quasi di tutto, con una radio
lanciata ad altissimo volume”. Io ho subìto un trauma nel momento che
ho superato la porta della cella e ho sentito che qualcuno la chiudeva
alle mie spalle. Ho subìto questo trauma. Questo trauma esiste, non è
solo psicologico, è anche costituito da un tizio che ha un mazzo di
chiavi che tintinnano continuamente, e il cui rumore uno se lo porta
dietro per tutta la vita, non se lo scorda più, è una cosa che ti
tintinna dentro nel cervello, anche la notte quando dormi, questo
rumore delle chiavi, un tizio che ti chiude la porta. Questo fatto di
chiudere la porta credo che sia una delle cose più orrende che un uomo
possa compiere nei confronti di un altro uomo. Per me una persona che
tiene le chiavi in mano e chiude un essere umano dietro una porta,
qualsiasi cosa possa aver fatto quest’ultimo, per me quello che si
permette di chiudere la porta è una persona assolutamente indegna, una
persona nei confronti della quale non c’è modo di poter parlare di
fraternità umana, di sembianze umane e così via. Eppure ci sono
momenti in cui tu hai bisogno di questo tizio, in cui scatta un
meccanismo psicologico legato alla solitudine, in cui tu sei solo, nel
tuo buco di culo, sei solo da un mese, da un mese e mezzo, da due
mesi, e passano i giorni e non vedi nessuno, certe volte senti rumori
incomprensibili e certe volte non senti niente, e senti un passo, là
fuori, tu sai che è il suo passo, sei convinto pienamente che quella è
l’ultima, la più indegna delle persone, eppure a un certo punto ti
metti dietro la porta e l’aspetti come l’innamorata perché, quando
passa, quella indegna persona ti butta un’occhiata che ti fa ricordare
di essere un uomo, perché anche lui ha due gambe, ha due braccia, due
occhi e, a un certo punto, lo vedi diverso, non vedi più la divisa, e
dici: “Insomma, l’umanità esiste ancora”.
Ecco a che cosa conduce quel buco, quella piccola cella, quindi ha una
sua specificità, non può essere più visto come la diluizione del
carcere nella vita quotidiana. Ecco perché non è immateriale il
carcere. Ecco perché il carcere è una costruzione specifica,
architettonicamente precisa, ma nello stesso tempo diffusa. Siamo
tutti in carcere, ma il carcere è anche una cosa diversa. Però, non
dobbiamo soltanto vederlo come una cosa diversa, perché dal momento
che lo vediamo soltanto come una cosa diversa, non lo comprendiamo
più.
Capisco che, a prima vista, il discorso sembra contraddittorio, ma lo
è solo apparentemente, riflettendoci bene non è contraddittorio,
oppure lo è nei limiti e nelle particolarità in cui tutto è
contraddittorio.
La pena, avevamo detto, è quel meccanismo che i filosofi cosiddetti importanti... Pensate cosa diceva Kant sulla pena, questo grande filosofo diceva una cosa orrenda, diceva: “Se in un’isola in cui ci sta una comunità, e questa comunità si scioglie, tutti partono da quell’isola e in quell’isola resta l’ultimo uomo, un assassino, l’ultimo che ha ammazzato un uomo, ormai la comunità si è sciolta, non c’è assolutamente nulla da salvaguardare, il bene comune non esiste più, non c’è assolutamente nulla da ripristinare, eppure quell’uomo deve lo stesso scontare la sua pena”. Ecco cosa diceva Kant, il filosofo che ha aperto le prospettive dello storicismo moderno. Bah!...
Comunque... Quindi, la pena cosa fa? Secondo i teorici di qualsiasi
colore, ripristina l’equilibrio turbato, rimette in equilibrio la
bilancia. Ma, in effetti, cosa fa la pena? Fa altre cose. Innanzitutto
precipita l’individuo nella condizione di incertezza. Cioè, chi
affronta una struttura, un meccanismo così efficiente, si trova di
fronte a qualcosa di più grosso di lui. Un meccanismo fatto di
avvocati, giudici, carabinieri, polizia, perquisizioni,
strattonamenti, bestemmie, essere spogliati nudi, le flessioni,
anticamente c’erano le ispezioni anali, chi non l’ha subita non può
immaginarsi cosa vuol dire, le condizioni di detenzione nelle
caserme... tutto questo è la pena. Ma ancora siamo nella parte
introduttiva della pena, ancora tu non sei accusato di niente, solo
qualche parola su un pezzo di carta in cui c’è scritto un articolo del
codice che tu nemmeno sai a cosa si riferisce, ma di già la pena ti
entra nel sangue e diventa parte di te stesso. E come diventa parte di
te stesso? Mettendoti nella condizione di incertezza. Tu non sai cosa
ti sta succedendo, puoi essere il più incallito dei criminali e
trovarti in questo stato di incertezza, e io lo so perché ho parlato
con gente che apparentemente era padrona di sé, persone che quando
entrano in carcere salutano il maresciallo, salutano questo e quello,
ma quando si vanno a coricare mettono la testa sotto il cuscino e si
mettono a piangere. Perché la situazione è così, quando uno viene a
trovarsi in quelle condizioni non è facile prevedere come andrà a
finire.
Io ho parlato anche con tanti compagni, abbiamo scherzato insieme
sulla situazione del carcere, però non abbiamo potuto negare di essere
stati messi in una condizione di incertezza, in una situazione in cui
non sai cosa ti aspetta l’indomani. E questa condizione di incertezza
è forse l’elemento essenziale, l’elemento che costituisce il primo
punto di tutte le sindromi, di tutte le malattie specifiche, di tutto
quello che viene fuori da una permanenza in galera. Tu sarai in una
condizione di incertezza per tutto il tempo che resterai lì dentro.
Difatti, fino a tre minuti prima di uscire dall’ultimo cancello – che
poi ce n’è una ventina da quello della tua cella a quello dell’uscita
–, tu non sai se, esattamente due metri prima dell’ultimo passo, lì
dentro scoppia una rivolta, vieni coinvolto nella rivolta e sei
perduto, se ne parla vent’anni dopo. Quindi, questa incertezza è
praticamente dentro di te, tu lo sai che è dentro di te, e non puoi
dire: “Va bene, dopo tutto io sono un rivoluzionario, queste cose non
mi toccano: il carcere, la morte, vent’anni, due mesi...”, compagni,
sono cazzate. Sono cazzate che ho detto anch’io, per farmi coraggio, e
anche per infondere coraggio agli altri, ai familiari, a mia madre, a
mio padre, che erano anziani e venivano affranti ai colloqui. Quando
sono entrato in carcere la prima volta piangevano, poveretti. Sono
situazioni difficili, e questa incertezza la proietti all’esterno, la
proietti su quelli che ti vogliono bene, sui tuoi figli, su tutta una
situazione che non si cancella con le chiacchiere. Io mi ricordo
quando, trovandomi appunto per la prima volta in isolamento in galera,
venticinque anni fa, mi mettevo a cantare le canzoni anarchiche... e
io odio le canzoni anarchiche. Come facevo, lì dentro, a cantare
quelle canzoni? Cantavo per farmi coraggio, come fa un bambino quando
è al buio che per darsi coraggio fischia, oppure si racconta le
favole.
L’altro elemento, che a me accadeva di vedere in maniera palpabile,
era la deformazione della comunicazione. Non riesci a comunicare. Per
poter dire una cosa, poniamo cambiare il nome dell’avvocato, c’è una
procedura burocratica: la sera devi appiccicare sulla porta blindata
della tua cella un pezzo di carta dove hai scritto che l’indomani
mattina vuoi andare all’ufficio matricola. L’indomani ti chiamano, e
ti avvii verso la matricola. Calcolando, poniamo, che ci vogliono
settantacinque metri per arrivare, ti fai il conto di impiegarci
qualche minuto, e no! possono passare da dieci minuti a un’ora e mezza
per fare quei settantacinque metri, e tu cominci come un cretino ad
aspettare dietro ogni porta che arrivi un angelo con la divisa che ti
apra, trac-trac, e passi primo, secondo, terzo, quarto ostacolo, e
tutto il resto. Questo ti cambia completamente il mondo. Che cosa ti
cambia? Ti cambia la concezione dello spazio e la concezione del
tempo. Pare una cosa facile, perché noi la maneggiamo come moneta
corrente, come i pezzi da cinquanta o da cento lire, la concezione
dello spazio e del tempo, però non è così semplice, perché il tempo
non è affatto segnato dall’orologio: questo è il tempo assoluto, il
tempo di Newton, determinato una volta per tutte, poi accanto a questo
tempo c’è quello che un altro filosofo, un filosofo francese, chiamava
la durata reale, cioè a dire c’è il tempo nel senso indicato da
sant’Agostino, il tempo come la nostra coscienza, come durata della
nostra coscienza. È l’attesa. L’attesa la misuriamo con uno scandire
delle nostre sensazioni, durata che non è affatto uguale a quella del
tempo assoluto, segnata dall’orologio.
Una volta, in galera, gli orologi erano vietati, adesso, dopo il 1974,
dopo la riforma carceraria, sono permessi, ed è peggio, secondo me,
perché una volta uno non sapeva che ora era, si regolava col sole, o
con i ritmi del carcere, i quali costituiscono un orologio “naturale”,
un orologio dell’istituzione, per cui si sa che alle sette e mezza si
apre la porta blindata e comincia la giornata. Il rumore che fanno
nell’aprire il blindato ha la sua funzione, storicamente
riscontrabile, che in varie epoche si è sviluppata in maniera diversa.
Nel corso di alcune ricerche sull’Inquisizione ho trovato, in un
manuale del 1600, una descrizione di come aprire il blindato nei casi
in cui i confratelli della Compagnia dei Bianchi, quelli con il
cappuccio bianco per intenderci, dovevano prelevare un condannato a
morte per condurlo al patibolo. In Sicilia c’era l’Inquisizione
spagnola, quindi erano bene organizzati. Gli appartenenti a questa
Compagnia dei Bianchi avevano il compito di assistere i condannati a
morte nei tre giorni precedenti l’esecuzione. Fra i loro compiti c’era
quello di accertarsi che i condannati fossero maturi per essere
giustiziati, e come facevano? Avevano inventato una tecnica
particolare: si organizzavano come se stessero per portare il
condannato all’ultimo supplizio, lo svegliavano di mattina presto,
facevano un gran rumore, marciavano in gruppo con tutti gli incaricati
del supplizio, gli alabardieri, eccetera. Ma non era vero, era solo
un’atroce messa in scena, semplicemente per vedere come reagiva quel
povero disgraziato. Se quello reagiva in un modo che era adeguato alla
bisogna, cioè se non andava in escandescenze, lo consideravano pronto
per l’operazione definitiva. Quindi, aprire un blindato non è una cosa
semplice come aprire una porta. Questi giovanotti aitanti, istruiti in
quel di Parma, ricevono disposizioni particolari: il blindato si apre
con colpi violentissimi, il detenuto mentre dorme deve saltare in
aria, da quel momento deve pensare: ecco, il mondo dei sogni non c’è
più, ora comincia l’istituzione, ora mi dicono cosa devo fare. Sette e
mezza, non si esce, si esce alle otto e mezza, insomma tutta la storia
che viene fuori dal ritmo del carcere che è quello ovviamente voluto
da loro.
Ad esempio, non so, una cosa importante, lo scandire del tempo è
segnato anche da altri fatti: ti arriva il latte la mattina (io ho
riflettuto molto su questi piccoli fatti, tanto non c’è niente da fare
in galera e quindi uno che fa? riflette), poi ti portano un uovo o due
alle dieci, poi alle dieci e trentacinque o alle undici la frutta, poi
a mezzogiorno il pasto, poi alle due ti portano un’altra cosa, non so,
la marmellata, perché? Perché loro in questo modo ti scandiscono il
tempo, te lo regolano. L’arrivo del cibo è un avvenimento e tu lo
inquadri nel contesto segregativo e la tua vita si adegua a quel
contesto.
Tutte queste cose sembrano chiacchiere, ma costituiscono, secondo me,
la scienza, la vera scienza carceraria. Che ne sanno i cosiddetti
operatori carcerari, che pure si ritengono preparati? Innanzitutto,
cominciamo, il professore universitario in galera non c’è mai stato.
Normalmente, quelli che si interessano del carcere non sanno nemmeno
cos’è il carcere. Lasciamo stare i filosofi del diritto, i quali
poveretti non sanno nemmeno cosa dicono. Parliamo degli operatori del
carcere, i quali più sembrano vicini all’interno del carcere e forse
meno ne capiscono. Gli avvocati e i giudici, sì, sono entrati in
galera, ma dove? Nel perimetro esterno, nella saletta dei colloqui.
Tranne casi eccezionali in cui un giudice di sorveglianza entra nei
bracci (ma è sempre nei bracci che entra e soltanto nei bracci, non
nelle celle), avvocati e giudici normalmente non sanno neanche cos’è
un carcere. Io voglio dire di più, non sanno cos’è il carcere nemmeno
gli operatori carcerari, gli psicologi, gli assistenti sociali, i
poliziotti di ogni genere. Difatti, il loro compito qual è? Entrano
nelle stanze a loro riservate, fanno chiamare il detenuto, lo
intrattengono in una bella discussione e se ne vanno a mangiare a
casa. Ancora, continuiamo, i secondini, anche loro non sanno cosa è il
carcere, e ve lo dico per esperienza personale. Ad esempio, mi trovavo
a Bergamo e ho organizzato, insieme ad altri detenuti, nei limiti
delle nostre possibilità, non la chiamiamo una rivolta, ma una specie
di rimostranza, perché ci smantellavano le otturazioni con le quali
cercavamo di chiudere i buchi che i secondini avevano fatto nel cesso
per controllarci anche in quel posto. Tutti i carcerati otturano
questi buchi come possono, ricorrendo a qualsiasi strumento: carta,
pezzetti di legno, asciugamani stesi e cento altre cose. Di regola,
queste difese vengono lasciate stare, ma quella volta, a Bergamo, il
direttore aveva dato ordine di eliminarle, quindi i secondini, con una
matita le smantellavano. Alla nostra rimostranza il direttore mi
rispose: “Ma cosa sta facendo per una faccenda da nulla, non sta
succedendo nulla, dopo tutto siamo fra uomini”. Come, siamo fra
uomini? “Tu sei direttore e io sono detenuto e non mi va che il
secondino mi guardi mentre sto nel cesso”. Quindi lui considerava il
problema come una cosa in fondo non grave. Ma questa camaraderie da
caserma indicava che lui, pure essendo direttore del carcere, non
sapeva cos’è il carcere. Perché io, con un mio compagno di cella,
carcerato come me, un mio compagno, che certamente non si può, come
umanità, come amicizia, come rapporto personale, paragonare al
direttore di un carcere, questo è ovvio, io non vado assieme al cesso,
mi pare evidente. E quando una volta il cesso era nella stanza, si
trovavano mille espedienti per andare al cesso separatamente. Una
volta, difatti, non c’era il cesso separato, ma era nella stessa
stanza. Quasi un quarto di secolo fa, quando per la prima volta ho
lavorato nel carcere di Catania, mi hanno incaricato di registrare la
spesa dei detenuti, così ho notato che nelle celle con parecchi
detenuti si consumava un grandissimo quantitativo di magnesia S.
Pellegrino. Quando ne chiesi il motivo mi spiegarono che prendendo la
purga tutte le settimane, quando si va al cesso non si fa puzza,
oppure se ne fa di meno. Questo cosa ci fa capire? Che il direttore, i
secondini, non sanno che cos’è il carcere. Perché il carcere, per
capirlo, si deve essere dall’altra parte della porta quando questa
viene chiusa dalla guardia. La chiave ci vuole, senza chiave sono
tutte teorie.
Quindi, tornando alla nostra specificità. Certo, il carcere è
costituito dai muri, dal secondino con la mitraglietta là sopra, dal
passeggio, dalla nebbia che scende sul cortile e non sai dove sei, in
quale pianeta ti trovi, in esilio, sulla luna, non si sa, ecc. Però,
in fondo, il carcere è la cella. E in cella ci puoi essere da solo o
con gli altri, e sono due condizioni e due sofferenze diverse. Perché,
sì, siamo forti, ecc., però io ho fatto il carcere da solo ed è
pesante. L’ultima volta ho fatto quasi due anni da solo, ed è stato
pesante. Con gli altri è forse ancora più pesante, o comunque è
pesante in altra maniera, perché nella condizione di reclusione,
l’animale uomo ha comportamenti strani e quindi... Questo è un accenno
dei problemi riguardanti il carcere fatto un po’ così, detto alla
buona, e lascio stare gli altri argomenti.
Mi ero segnato altri problemi ma non sono poi molto importanti. Voglio
solo ricordarne due, quello relativo all’odore. Il carcere ha un odore
particolare che non si scorda mai. Lo si sente la mattina. Mi ricordo
che è l’odore che hanno tre cose: i bar quando aprono la mattina
presto, i bigliardi e i bordelli. Nei luoghi dove l’animale uomo si
trova in condizioni di particolare sofferenza c’è un odore
particolare, e il carcere ha questo odore e non te lo scordi più e si
avverte di più la mattina, quando ti aprono il blindato, il perché non
me lo chiedete, non lo so. L’altro problema è il rumore, il rumore è
veramente una cosa spaventosa, non c’è modo di abituarsi. Non è
soltanto la musica, le canzoni napoletane che ti torturano. Non si può
descrivere, una cosa orrenda. Mentre un problema di secondaria
importanza, almeno per quello che ho potuto capire, e non solo dal
punto di vista mio, personale, è il problema del desiderio sessuale.
Questo veramente non è il problema centrale, come potrebbe apparire
dall’esterno. Io ho visto la risposta che è stata data una quindicina
di anni fa a un quesito mandato dal Ministero sulla eventuale
possibilità di instaurare in Italia il sistema della cosiddetta ora
d’amore, diciamo, con il legittimo partner, e questa risposta è stata
quasi totalmente negativa.
Vediamo ora l’ultima parte del discorso, se non vi siete frastornati
troppo. Quali possono essere le prospettive del carcere? Cioè, in che
modo i dominanti stanno cercando di ristrutturare la condizione
carceraria, la quale, ovviamente, non è mai un fenomeno stabile? Il
carcere, per definizione, è una cosa incerta, quindi non si sa mai che
cosa succede. L’incertezza non è soltanto nell’aleatorietà dei
regolamenti. C’è la legge che dice che il detenuto deve avere il
regolamento del carcere, quando entra, per poterlo leggere e poterlo
rispettare, volendo. In qualche carcere, come alla Dozza di Bologna
per esempio, danno un estratto di tre pagine, ma il regolamento è una
bestia di 150 pagine. Per cui succedono cose incredibili. Se uno si
procura il regolamento e lo legge bene finisce per mettere in
difficoltà alcuni aspetti del meccanismo di controllo.
Dicevo che il carcere è una realtà sempre in profonda trasformazione
e, secondo me (questa è una tesi personale), il carcere va verso
un’apertura, cioè tende ad aprirsi e a fare partecipare. Nelle
condizioni di carcerazione degli inizi degli anni Settanta, per farti
in cella un uovo fritto, o il caffè, diciamo, impiegavi circa un’ora,
perché occorreva montare con le scatole vuote dei fiammiferi coperte
della carta stagnola delle sigarette una specie di impalcatura, poi
metterci sotto il gas solidificato, la cosiddetta “meta”, poi
accendere questa cosa, poi fare bollire, sempre armeggiando questa
alchimia vicino al cesso, perché non c’erano tavoli, non c’erano
sedie. Il letto bisognava chiuderlo la mattina, piegarlo e così veniva
fuori una specie di predella dove sedersi. Da queste condizioni
primordiali alle condizioni del carcere di oggi, in cui ci sono a
disposizione strutture dove puoi anche cucinare, anche nei giudiziari
e non solo nei penali (quest’ultimi essendo ancora più attrezzati e un
po’ più “aperti”), la differenza è considerevole.
È passata la riforma. Questa riforma ha migliorato le condizioni
carcerarie, certamente le ha migliorate all’interno delle strutture
murarie del carcere, questo è logico, ha creato alcune nuove
condizioni di socialità, ne ha peggiorato altre, ha creato estreme
disparità fra carcere e carcere. Poniamo, la Dozza è un carcere
modello, nato come carcere speciale, adesso viene utilizzato come
carcere giudiziario normale, ed è infinitamente peggiore del vecchio
S. Giovanni. Io che sono stato in tutt’e due i posti posso fornire
tranquillamente la prova che la Dozza è peggiore. Però, mentre nel S.
Giovanni c’erano le sbarre, poi c’era la rete a protezione delle
sbarre, poi c’erano (in parte) le bocche di lupo, alla Dozza ci sono
solo le sbarre verticali, e uno sembra che sia libero, ma con tutto
ciò le condizioni complessive di carcerazione sono peggiori, sono più
disumane. Mentre nel S. Giovanni uno non poteva andare fuori dalla
cella a passeggiare libero nel braccio (sempre nelle ore fissate dalla
direzione), nella Dozza sei libero nel braccio, insomma ci sono delle
differenze... Però questi movimenti sono, come dire, pulsazioni
interne al sistema carcerario. La maggiore larghezza carceraria si
restringe subito, basta che qualcosa non va, basta che invece di un
impiccato ogni 15 giorni ce ne sia uno la settimana, già le cose
cambiano. Oppure, basta, come è avvenuto alla fine del 1987, appunto
alla Dozza, una semplice protesta, che la custodia risponde con un
attacco armato, come quello comandato dal maresciallo nazista,
comandante militare della Dozza, contro l’infermeria. In questi casi
il carcere cambia immediatamente.
Però, queste pulsazioni interne al singolo carcere, hanno un loro
rapporto con la pulsazione di sviluppo e di trasformazione dell’intero
mondo carcerario, che va verso una sua apertura. Perché va verso
un’apertura? Perché l’apertura corrisponde a quelle che sono le
condizioni di sviluppo del sistema carcerario, di allargamento della
perifericità delle sue strutture e, in generale, delle strutture dello
Stato, di qualsiasi tipo di struttura dello Stato, cioè a dire di una
maggiore partecipazione. Questo concetto merita un approfondimento.
Tenete presente che il concetto di partecipazione, in base a quel
ragionamento sulla contraddizione che facevamo prima, non è del tutto
separato dal concetto di distinzione, di separatezza. Io partecipo e,
in una prima fase di questa partecipazione, mi sento vicino all’altro,
che partecipa assieme a me, nello stesso tempo. Man mano che aumenta
questa partecipazione, lo stesso processo di partecipazione mi isola e
mi fa diventare differente dall’altro, perché ognuno segue la propria
strada nella partecipazione. Vediamo di illustrare meglio questo
concetto, perché non è tanto semplice. Ad esempio, questa
partecipazione si verifica dappertutto, nella scuola, nelle fabbriche,
nella funzione e nella struttura diversa dei sindacati, nella
struttura diversa dei Consigli della scuola e della fabbrica, in una
parola in tutto il mondo della produzione. La partecipazione si
verifica in determinate situazioni in modo differente. Sono differenti
le strutture dei quartieri ghetto. Poniamo a Catania nel quartiere di
S. Cristoforo, uno dei più significativi come quartiere ghetto ad
altissima densità di problemi sociali, adesso c’è un discorso diverso,
ci sono i consultori familiari, mentre prima non riusciva ad entrare
neanche la polizia. Questa maggiore partecipazione, in che modo ha
cambiato il quartiere? Lo ha avvicinato oppure allontanato dagli altri
quartieri di Catania? Questo è un problema. Secondo me, lo ha
allontanato dagli altri quartieri, lo ha ancora di più specificizzato.
Secondo me, lo scopo della partecipazione è la divisione.
Il carcere si apre alla partecipazione, ci sono queste strutture di
dialogo esterno-interno, come “Carcere-territorio”, poniamo. Complessi
di imbroglioni, di ideologi da strapazzo, di rappresentanti dei
Consigli comunali, di quartiere e dei sindacati, di delegati del
vescovo e di rappresentanti delle scuole. Tutta questa gentaglia non
fa altro che avere autorizzazioni in base all’articolo 17 per entrare
in galera, contattare il detenuto e quindi stabilire un contatto tra
l’esterno e l’interno. Il detenuto ha cento, mille problemi, è come un
malato. Se voi entrate in un ospedale e parlate con un malato, quello
ha tutti i mali del mondo. Se voi entrate in galera e parlate con un
detenuto, lui ha cento problemi. Innanzi tutto è sempre innocente, non
ha fatto niente, innanzi tutto la sua famiglia ha sempre bisogno,
insomma quelle cose che sono presenti nei discorsi dei detenuti.
D’altro canto, ognuno tira acqua al proprio mulino e, in ogni modo, in
galera, guai se uno si permettesse di dire: “Io... il carcere, non mi
pesa completamente, sono cazzate, sono fesserie...”, no, non verrebbe
ben visto.
La partecipazione realizza una maggiore separazione, una maggiore
divisibilità all’interno del carcere, perché quelle poche persone che
hanno una effettiva e cosciente disposizione illegale, cioè a dire che
sono realmente “fuorilegge”, e che sono individuabili in galera,
perché in una popolazione carceraria, poniamo, di cento detenuti, già
li si può vedere al passeggio, e qui si capisce, si distingue
facilmente la persona seria dalla persona poco seria, si capisce da
tanti modi, da tanti segnali che manda. C’è un discorso complessivo
che si sviluppa lì dentro, in base a come passeggi, in base alle
scelte che fai, alle parole che dici. Lo so... molti di questi
discorsi possono essere letti in chiave sbagliata. Non sto elogiando
un comportamento coatto, sto dicendo che c’è una specificità
all’interno del carcere, c’è il detenuto che è cosciente del proprio
mestiere di detenuto, della propria qualificazione di detenuto, e c’è
il detenuto che si trova per sbaglio in galera, il detenuto che poteva
essere benissimo un dirigente di banca, o semplicemente un povero
imbecille, cioè il detenuto che ha trovato in galera una sua
transitoria sistemazione, che vede il carcere come una disgrazia
transitoria (quanto più breve possibile) o come un’assistenza sociale.
Ho visto persone che si facevano arrestare apposta sotto Natale,
perché a Natale danno il panettone (e vi pare poco?), oppure per darsi
una pulita come si deve, o per farsi curare, perché per molti non c’è
modo di potersi curare se non in galera, e sono non uno o due ma
centinaia di casi.
Ma c’è un’altra popolazione detenuta, la quale ha l’orgoglio di essere
“fuorilegge”, l’orgoglio di potere attaccare, sia pure a suo modo,
determinate strutture dello Stato. Questa popolazione, in quel
contesto di partecipazione, non è disposta evidentemente a
partecipare, quindi subirà una particolare identificazione, una
particolare divisione. Ecco perché il carcere partecipativo è un
carcere di divisione, perché separa. Non tutti possono partecipare
allo stesso livello, non tutti accettano lo stesso dialogo con il
potere. Ci sono diversi livelli di accettazione e, in funzione di
questi differenti livelli di accettazione, la partecipazione crea
divisioni. E, più intensa è questa partecipazione, più è
settorializzata, più sono i segnali che pervengono, più avviene una
compartimentazione del mondo detenuto.
Riguardo il problema di accettare un rapporto più morbido con
l’istituzione carceraria c’è da sviluppare un discorso complesso che
qui do per scontato avendolo fatto tante volte in passato. Prendiamo
l’esempio della semilibertà. Non c’è un passaggio diretto tra
carcerazione e semilibertà. Quindi, non si tratta della decisione di
un momento, che si riassume in un rapporto diretto tra carcere e
detenuto. Prima della concessione della semilibertà c’è tutto un iter
che si chiama “trattamento” – la scelta della parola non è casuale –
in quanto il detenuto è considerato come un malato. Il trattamento è
un susseguirsi di parecchie decisioni che il detenuto deve prendere.
Comincia con un colloquio con uno psicologo, poi si ha l’accettazione
di un lavoro nella struttura carceraria, e continua con il fatto che
tu non devi avere avuto questioni all’interno del carcere, quindi è
una cosa che dura almeno due o tre anni. Cioè, si deve scegliere per
tempo la strada di contrattare col potere. Scelta legittima, per
carità, ma sempre nell’ottica di quella desistenza, per cui uno dice:
“Non mi sento di andare avanti. Non sto danneggiando nessuno, e
intraprendo questa strada”. Allora, se la guardia si comporta in un
certo modo, io faccio finta di guardare il muro che mi sembra
interessante; se c’è un problema, non dico una rivolta, ma un semplice
problema, resto in cella e non vado all’aria. Tutti questi momenti
comportano una scelta, non c’è una alternativa secca tra detenzione e
semilibertà, questa è pura teoria, nella pratica non è così.
Praticamente, questo problema c’è per quei detenuti che hanno una loro
coerenza di scelte rivoluzionarie. Ma il detenuto in generale, il
detenuto che si trova in carcere per motivi suoi e che non ha
rivendicato nessuna identità “politica”, per quanto rarefatto possa
essere ormai questo concetto, fa un ragionamento in termini di
praticabilità di una scelta, non si pone un problema del genere
nemmeno nella più remota delle ipotesi. Tenendo conto della sua storia
personale, del contesto in cui si inserisce e della realizzazione
pratica di quello che la legge gli propone in termini di possibilità
giuridica. Si tratta di un itinerario della durata di due, tre anni,
non è la decisione di un momento.
Naturalmente, il carcere del futuro, che penso sarà molto più aperto
di quello di oggi, avrà una maggiore attenzione, quindi sarà molto più
repressivo, molto più chiuso, totalmente chiuso, nei confronti di
quella minoranza che non accetterà la contrattazione, che non vorrà
partecipare, che rifiuterà qualsiasi discorso di partecipazione. Ecco
perché ho parlato del rapporto che passa tra la partecipazione e la
divisione, rapporto che apparentemente può sembrare tutt’altro che
evidente. Cose così lontane tra di loro, invece, si scoprono vicine:
la partecipazione crea la divisione.
Allora, cosa fare? Questa domanda sul carcere ce la siamo posta tante
volte. Ho letto un piccolo opuscolo. Sul carcere, per principio, non
leggo quasi niente perché mi fa schifo leggere testi che parlano del
carcere. Ma, visto che mi era stato chiesto da compagni, ho accettato
di tenere un discorso, diciamo così, “in famiglia”. Però, dicevo,
questo opuscolo l’ho letto. Si tratta di un opuscoletto pubblicato dai
compagni di Nautilus, dove c’era un testo abolizionista sul carcere e
poi un discorso finale di Riccardo D’Este, discorso interessante,
anche se non sono riuscito con esattezza a capire cosa lui volesse
dire, cioè se facesse o meno una critica della posizione
abolizionista, oppure non riuscisse a farla fino in fondo, visto che,
dopo tutto, stava presentando quel testo. Però, in quel testo c’è una
cosa che non mi va e questa la voglio dire, e quando vedrò Riccardo
gliela dirò. Lui ha condannato senza appello, proprio in assoluto,
coloro che in passato avevano teorizzato e realizzato attacchi contro
le carceri. Questo giudizio, a me pare sbagliato. Lui dice questo...
Tenete presente che Riccardo è un bravissimo compagno che forse avete
conosciuto in una delle sue conferenze, qui a Bologna. Egli dice
questo: “Quegli attacchi non valevano nulla, non avevano senso, tanto
è vero che le carceri le hanno costruite lo stesso”. Ma come, santo
cristiano! Tu che sei antiefficientista per tutto il resto, mi fai un
discorso del genere che è eminentemente efficientista. Che vuol dire
che le carceri le hanno costruite lo stesso? Forse che tutte le cose
che facciamo, quando non sortiscono l’effetto voluto, oppure non
arrivano allo scopo prefissato, non valgono un cazzo!? Scusate se ve
lo rendo in maniera semplicista, ma il discorso di attacco alle
carceri a me interessa in modo particolare. E no! Le carceri vanno
attaccate. Questo non vuol dire che una volta deciso di attaccare le
carceri non ci saranno più carceri. Oppure, perché le abbiamo
attaccate una volta possiamo dirci contenti e non fare più nulla per
distruggerle. Ricordo qui il tentativo di distruggere le carceri di
Sollicciano, quando le stavano costruendo. Il tentativo c’è stato, ma
le carceri di Sollicciano le hanno costruite lo stesso. Ma cosa vuol
dire, che quell’attacco là non ha avuto senso? Io penso di no. Perché
se dovessimo arrivare a questa conclusione alla quale penso, per un
errore di penna, come mi voglio illudere, sia arrivato Riccardo,
dovremmo condannare qualsiasi cosa stiamo facendo. Perché, qualsiasi
cosa i compagni rivoluzionari ed anarchici fanno non ha affatto la
garanzia di arrivare immancabilmente allo scopo, sortire il risultato
che chi la compie si prefigge. Se fosse così staremmo freschi
veramente.
Riguardo la tesi di Riccardo D’Este, c’è da dire che la conosco non
solo per avere letto l’opuscolo sul carcere, ma anche per averne
parlato con lui. Riccardo è una persona affascinante, ma quando uno lo
ascolta, o lo legge, fa bene a separare in quello che lui scrive e in
quello che dice, il grano dalla pula, in modo da stabilire quanto
appartiene al fascino di come lo dice e quanto appartiene alla
fondatezza di quello che dice.
Secondo me, non è giusto il discorso che lui fa sulla possibile
integrazione tra riforme e estremismi, non esiste, nella realtà, una
separazione del genere. Non ci sono, nella realtà, lotte riformiste e
lotte rivoluzionarie. È il modo in cui tu realizzi una lotta, quello
che conta. Come si può vedere nella discussione fatta poco prima,
anche il modo di comportarsi con gli altri conta moltissimo: se io mi
comporto in un certo modo con la mia compagna, sono riformista o
rivoluzionario? No, l’alternativa non è questa, piuttosto è quella di
vedere se io sono uno stronzo oppure no. E se io opero una distinzione
tra il mio modo di essere e il mio modo di agire, il mio modo
“politico” di apparire, e il mio modo di essere nell’intimità dei miei
rapporti con coloro che mi stanno più vicino, allora ridiventa valida
la distinzione tra riformismo ed estremismo, in caso contrario
ipotizzare questi concetti in maniera pura è qualcosa di assurdo.
Non è vero che da questa integrazione tra un apparente riformismo e un
apparente estremismo, viene fuori qualcosa che abbia possibilità di
incidere nella realtà. A me non sembra che sia così. Io ho vissuto
tutto ciò in maniera diversa. Ho visto che in qualsiasi cosa un
individuo fa, deve pure valutare quali sono le sue scelte di fondo e
queste scelte significano che l’individuo si coinvolge in quello che
fa, perché se non si coinvolge, se si chiama continuamente fuori, è
chiaro che può essere rivoluzionario soltanto a chiacchiere, oppure
può conquistare il mondo, ma per farne che cosa? Per farne un nuovo
teatro di tragedia greca? Che cosa sta dicendo una tesi del genere?
Assolutamente nulla. Il ragionamento da fare è un poco diverso. Quella
distinzione non esiste. Invece, se la facciamo operare in quanto
distinzione, se operiamo in un mondo del politico, in un mondo dello
spettacolo, della rappresentazione (nel senso di Schopenhauer), se
riduciamo il mondo a questa rappresentazione (non dimentichiamo che
Schopenhauer prestò il proprio binocolo ad un ufficiale prussiano
perché sparasse meglio sugli insorti, ed è quest’uomo che ci parla del
“mondo come rappresentazione”, non quello che si sono sognati alcuni
lettori anarchici del suo libro), quindi se noi immaginiamo il mondo
come rappresentazione, allora sì che è possibile una distinzione tra
riforma e rivoluzione, ma si tratta ancora una volta di chiacchiere.
Nella realtà non ci sono queste idee astratte, ma c’è l’uomo, con i
suoi rapporti complessivi, e con questi rapporti contribuisce a
trasformare la realtà, quindi nelle cose che fa non è possibile
individuare con esattezza quella distinzione. Craxi cos’è: riformista?
rivoluzionario? Per me questa distinzione cattedratica tra riforma e
rivoluzione non ha tutto il senso che in passato le si è voluto dare.
Certo – e sia qui detto tra parentesi – anch’io ho usato questi
termini, qualche volta, ad esempio ho usato il termine “riformista” o
“socialdemocratico” anche per definire la pratica di qualche gruppo
anarchico, quasi sempre per caricare con questi termini la vis
polemica che mi sembrava, ad un certo punto, necessaria. Molte volte
uno predica bene e razzola male. Ma non è questo il punto. Bisogna
però tenere conto del contesto in cui si inserisce la polemica, la
visione delle conseguenze di certe posizioni dell’avversario e la
necessità di trovare la strada più breve per raggiungere un obiettivo,
che è appunto quello della polemica in corso. In un contesto in cui
diventa di pubblico dominio assegnare una certa significatività ad un
termine come socialdemocratico e, al contrario, se vuoi criticare
qualcuno, colpirlo per qualcosa che quel qualcuno ha fatto, gli dici
che è socialdemocratico. Si tratta della strumentalità dell’uso di un
termine non dell’approfondimento di un’analisi. Difatti io ho più
volte criticato una parte del movimento anarchico italiano definendola
socialdemocratica, ma non ho mai fornito un’analisi approfondita del
perché. C’era una fondatezza dell’uso del termine in quanto per noi
socialdemocratico significa una cosa precisa, cioè riformismo,
aggiustamento del potere, ecc.
Qualche parola critica in più sul problema dell’efficientismo.
È una questione che ognuno valuta da sé. Io provengo da una cultura e
da un modo di pensare le cose che si possono definire efficientisti,
sono nato in un’atmosfera efficientista, esco dalle scuole
dell’efficientismo. Poi mi sono convinto che l’efficientismo non porta
in nessun posto. Mi sono convinto... teoricamente, magari nella
pratica sono ancora efficientista, però, almeno in teoria, riesco a
capire la differenza, cioè che non tutti gli atti che un uomo compie
devono necessariamente avere una immediata retribuzione in termine di
effetto. Questo è fondamentale. Capire una questione del genere è
fondamentale per tanti motivi, perché, prima di tutto, specie nei
rivoluzionari, c’è la tendenza a presentare il conto, e non
dimentichiamo che i rivoluzionari sono esosi, sono creditori
esosissimi... montano subito la ghigliottina, non aspettano per
niente, questa è una cosa tremenda. In effetti, che cos’è la
ghigliottina del rivoluzionario? È l’effetto dell’efficientismo,
perché raggiunge determinati processi e poi comincia a... Ho letto
recentemente qualcosa riguardo lo stupore suscitato da certi documenti
di Lenin. Molti si sono sbalorditi perché Lenin ordinava e sollecitava
ad ammazzare i proprietari contadini. A me la cosa non ha fatto
meraviglia. È normalissimo ammazzare i proprietari contadini in nome
dell’efficientismo rivoluzionario. O uno si meraviglia per tutto
quello che riguarda l’efficientismo, oppure non si può meravigliare
per una lettera del genere perché è una cosa normale, necessaria, una
logica conseguenza delle scelte fatte prima. Se uno vuole raggiungere
determinati scopi, deve sopportare determinati costi, questo è il
concetto dell’efficientismo.
Il discorso sull’efficientismo riguarda il come impostare una lotta
corretta, diciamo, contro l’istituzione delle carceri, che incombe un
po’ su tutti noi. Mio nonno diceva: “Un mattone delle carceri
l’abbiamo tutti quanti. A tutti quanti ci tocca un mattone a testa”,
diceva lui. Non è che capisse molto di carcere, però quello era un
proverbio siciliano molto diffuso all’epoca. Quindi, fare entrare il
carcere in tutti i processi di intervento nella realtà, in quelle che
tanti anni fa abbiamo chiamato lotte intermedie. Si tratta di tutti
quegli interventi che facciamo nella realtà pur essendo sicuri che da
esse non verrà fuori un enorme risultato, un effetto, perché magari
saranno recuperate, o perché hanno finalità loro intrinseche che sono
circoscritte. Se queste lotte sono impostate correttamente, alcuni
risultati li hanno sempre. Innanzi tutto li hanno in termini di
efficacia della lotta stessa in un senso diverso dell’efficientismo.
Cioè, se sono impostate correttamente, le lotte sociali si
riproducono. E come possono essere impostate correttamente? Innanzi
tutto, sganciandole dalle deleghe di altre realtà, dall’ipoteca di
eventuali sostegni, in altre parole autogestendole. Poi, non possono
essere, ovviamente, consegnate a scadenze precise, fissate nei
laboratori del potere, quindi devono anche partire da una mentalità
differente, da una logica di conflittualità permanente, in quanto noi
non possiamo fare scattare queste lotte in funzione della scadenza
precisa che ci viene fissata dal potere. Questi due concetti, quello
di autogestione e quello di conflittualità permanente, uniti al terzo
concetto, che è quello fondato sul rifiuto di una necessaria e
ineliminabile efficacia immediata, visibile, non partono da una
concezione utopica della realtà, ma si basano sulla possibilità
concreta di impostare le lotte sociali in modo da rifiutare uno sbocco
immediatamente traducibile in quantità, in risultati quantitativi.
Questo è possibile, anzi, se bene riflettiamo, è continuamente
possibile. Ora, molto spesso, commettiamo l’errore di volere
circoscrivere la lotta per essere più leggibili, perché, magari,
intervenendo in una specificità, come per esempio la fabbrica, vediamo
bene quali sono le sue caratteristiche: la lotta salariale, la difesa
del posto di lavoro, la lotta contro la nocività del lavoro, e tante
altre cose, ma non riusciamo a capire bene come potrebbe entrarci il
carcere, e allora non lo inseriamo per non inquinare quelle
specificità, perché pensiamo che la gente ci capisca meno se
allarghiamo il discorso.
In se stessa, la lotta, poniamo in una fabbrica, è sempre una lotta
intermedia. Quale può essere la conclusione di un intervento del
genere? Nella migliore delle ipotesi si ottiene il risultato voluto,
cioè che i lavoratori di quella fabbrica salvano il posto di lavoro,
poi, tutto viene recuperato. La lotta si recupera, i padroni trovano
un’alternativa alla cassa integrazione, trovano un’alternativa alla
nocività del lavoro, investimenti ulteriori per migliorare il
contesto, eccetera. Questo tipo di situazione a noi già risulta
soddisfacente, e in effetti lo è anche da un punto di vista
rivoluzionario, se si sono mantenute quelle condizioni iniziali, cioè
a dire la conflittualità permanente, se la scadenza l’abbiamo voluta
noi e non ci è stata imposta, se si è mantenuta l’autogestione della
lotta e tutto il resto. Ma non diventa più soddisfacente se, in nome
dell’efficientismo, ci vietiamo la possibilità di inserirci anche il
momento del carcere. Perché per me il discorso sul carcere, come
qualsiasi altro aspetto del discorso rivoluzionario, deve essere
inserito in tutte le lotte che facciamo. E se ci riflettiamo bene è
possibile fare una cosa del genere. Quando non la facciamo è solo in
nome dell’efficientismo, perché pensiamo di non essere capiti oppure
di apparire pericolosi, per cui riteniamo il problema del carcere
qualcosa che, in certi casi, è meglio evitare. Non parlare male di
Garibaldi.
Qualche parola adesso sulla posizione abolizionista. Tenete presente
che io non sono affatto documentato in modo corretto sull’argomento,
quindi potrei dire anche delle cose parziali, prima di tutto perché
non condivido, per quello che ho capito, la posizione abolizionista,
poi, appunto, per mancanza di documentazione. Se il mio discorso
dovesse risultare parziale, bene, correggetemi. Non condivido la
posizione abolizionista, dicevo, non perché voglio le carceri, mi pare
ovvio, non la condivido perché non condivido qualsiasi posizione che
intende abolire una parte di un complesso assolutamente inscindibile
nei suoi elementi. Scusate il mio linguaggio approssimativo. In altre
parole, non sono d’accordo che si possa ipotizzare l’abolizione, non
l’attacco, ma l’abolizione, cioè proporre una piattaforma per abolire
un aspetto di un contesto organicamente inscindibile nelle sue parti.
Io non sono d’accordo che si faccia una proposta per abolire la
magistratura, perché per me non ha senso una proposta del genere,
oppure per abolire la polizia. Questo non vuol dire che io sia
favorevole alla magistratura o alla polizia. Allo stesso modo, non
sono per l’abolizione dello Stato ma solo per la sua distruzione. E
non solo sono d’accordo ma sono disponibile ad agire in vista di uno
scopo del genere, quando che sia, anche se è estremamente poco
probabile in tempi brevi. Sono cioè disponibile a fare qualcosa, e
posso discutere su cosa fare in termini di attacco contro questo o
quell’aspetto specifico dello Stato, e quindi anche contro il carcere.
In altre parole, secondo me, il discorso va ribaltato. Non è una
questione di abolizione di una parte dello Stato, come, per tornare al
nostro argomento, le carceri, ma è una questione di distruzione dello
Stato, la quale, ovviamente, non può essere totale in maniera
immediata, se no si rinvierebbe alle calende greche questo
avvenimento. Sembrerebbe l’attesa di quella famosa linea della Storia
che si muove e che in ogni caso va verso l’anarchia e allora si
finirebbe per non fare niente aspettando che questa anarchia si
realizzi da sola. Al contrario, io sono disposto a fare qualcosa oggi,
subito, anche nella specificità di una parte dell’istituzione totale
“Stato”, quindi anche contro il carcere, o contro la polizia, o contro
la magistratura, o contro tutti gli elementi portanti ed essenziali
dello Stato, nell’attesa di distruggere definitivamente lo Stato.
Questo è il concetto che volevo chiarire.
Difatti, a cosa corrispondono questi discorsi? Spendiamo altre due
parole, non vi innervosite, vi giuro che non vi tedierò più a lungo.
Se voi riflettete bene, il concetto di abolizione delle carceri nasce
in un contesto teorico ben preciso, che francamente non vi saprei dire
qual è, ma nasce parallelamente a qualcosa che so un po’ meglio, ed è
questo. In America, in questo momento, all’interno del pensiero
filosofico generale, ma anche in quello sociologico, ci sono diverse
università che stanno lavorando sul problema della trasformazione
della democrazia. All’interno di questo contesto, ci sono diversi
studiosi americani, fra cui il più famoso si chiama Robert Nozik, del
quale è uscito qualche libro anche in italiano, che hanno affrontato
il problema di una situazione di vita comunitaria senza la sanzione,
senza la pena e senza gli strumenti di repressione. Perché si pongono
questo problema? Perché, evidentemente, queste persone illuminate si
rendono conto che la struttura democratica, così come la conosciamo
noi, non è in grado di vivere a lungo, e devono cercare una soluzione
diversa; devono cercare in che modo possono venire fuori strutture
comunitarie prive di determinati elementi quali, appunto, il carcere,
la polizia, la struttura di controllo dello Stato, ecc., elementi che
per noi sono connaturati all’esistenza dello Stato. Questo dibattito
non è una cosa periferica, è centrale nel pensiero politico e
filosofico delle università americane. E, secondo me, l’abolizionismo,
correggetemi se sbaglio, si potrebbe riportare a questo movimento, ma
si tratta di un argomento che dovrebbe essere meglio approfondito da
chi ne sa più di me, io non voglio dire di più.
Diciamo che questo tipo di problema, specialmente in pensatori come
Nozik, ma ce ne sono altri che adesso mi sfuggono che affrontano lo
stesso discorso, è solo l’indice di un interesse teorico che si fonda
su di alcune necessità pratiche di gestione del potere. Evidentemente,
il modello storico della democrazia, ad esempio il libro di Alexis de
Tocqueville, oggi non è più accettabile. Non è quella la democrazia di
cui stiamo parlando. Oggi occorrono altre strutture. Pensate ad un
paese come la Cina. Come si fa a gestire la democrazia futura della
Cina basandosi su di un modello come quello di Tocqueville? Ad
esempio, come può funzionare un parlamento con ventisettemila
deputati? impossibile. Devono trovare una strada diversa. E in questa
direzione stanno lavorando. Si tratta di questi segnali che vediamo,
in modo diverso, anche in Italia. Trasformazioni istituzionali, come
dicono loro, che sono l’espressione di un malessere generalizzato che
tocca la democrazia.
Ma anche studiosi che sembrerebbero lontani da riverniciature
democratiche, come Michel Foucault, hanno dato il loro contributo ad
un perfezionamento del carcere, quindi a una razionalizzazione della
struttura istituzionale.
Riguardo Foucault, diciamo che, almeno per quello che posso conoscere
io, visto che conosco meglio i suoi scritti sulla storia della follia,
c’è nella sua riflessione lo sviluppo di due pensieri fondamentali:
uno legato al superamento e l’altro al mantenimento di un processo in
corso. Ciò porta questo pensatore a lasciare costantemente, in tutto
quello che pensa, qualcosa di non sufficientemente definito. In tutte
le sue proposte, anche nella proposta riguardante l’omosessualità,
considerata nello stesso tempo come diversità e come normalità, non è
mai chiaro quale decisione vuole prendere. D’altronde, l’ambivalenza è
tipica in questo pensatore, e non solo in lui ma in tutta quella gente
che cerca di mantenersi in equilibrio. La questione del carcere, in
fondo, per lui è il problema di uno strumento del cui uso non è
convinto, vorrebbe farne a meno ma non sa pensare altro che a metterlo
tra parentesi. Infatti, ad un certo punto, fa l’esempio della nave dei
folli, che era carcere, manicomio, brefotrofio e casa di riposo per le
vecchie prostitute, tutto in una volta. Egli scrive che la nave dei
folli venne messa in pratica in pochissimi giorni, che per realizzarla
ci volle pochissimo tempo. Nel momento in cui la società espulse dalle
città gli individui diversi (veramente non parla degli omosessuali),
li mise fuori dalla cerchia delle mura. E questi, non sapendo cosa
fare, migravano da città a città, per cui, ad un certo momento, li
presero e li misero su una nave, la nave dei folli. Questa nave
cominciò a navigare da porto a porto perché non la voleva nessuno. Una
nave sempre in circolazione. In quel momento si venne a creare il
carcere, il manicomio, il brefotrofio e la casa di riposo per le
vecchie prostitute, perché la società in quel momento non poteva più
sopportare queste presenze. Erano scomparse, come dire, alcune
funzioni sociali: quella del folle, che nella società medioevale era
visto anche come il tipo toccato da Dio, e quella del mendicante, che
nei paesi cattolici era il soggetto su cui esercitare la carità,
principio fondamentale, non dimentichiamolo, del cristianesimo
cattolico. Con lo sviluppo del pensiero protestante, il mendicante
diventa oggetto di cattura, quindi deve essere messo da parte. Quando
la società non ne ha più bisogno la figura del mendicante diventa
superflua, il mendicante scompare come oggetto di carità e diventa
prigioniero. Oggi, che la società non ha più bisogno di carcere,
dovrebbe scomparire “l’oggetto” prigioniero. Come farlo scomparire?
Pigliamo una nave e mettiamo tutti i prigionieri su una nave. Ma così
“l’oggetto” prigioniero non scompare perché la nave diventa un
carcere, come facevano i francesi con i deportati della Comune di
Parigi: li mettevano nei pontoni, battelli ormeggiati a Le Havre, e lì
dentro la gente ci restava per 4 o 5 anni, prigioniera di un carcere
galleggiante. Ora che la società non ha più bisogno di carcere, dicono
alcuni illuminati pensatori sociali, trasferiamo i detenuti in
un’altra istituzione sociale. Che poi sarebbe il progetto della
posizione abolizionista. E qui il discorso di Foucault torna a
perfezione.
Questo era quello che volevo dire. Torniamo adesso, per un attimo, al
discorso dell’attacco. Io sono sempre per l’attacco specifico.
L’attacco specifico è importante, non solo per il risultato che
produce, non solo per gli effetti che causa, che possiamo vedere sotto
i nostri occhi. Nessuno di noi può avere la pretesa di essere
funzionalista, perché se caschiamo in questo equivoco non facciamo più
niente. Quindi, le carceri vanno prima capite, perché non si può fare
nulla se prima non si capisce la realtà che si vuole combattere, poi
vanno fatte capire, e poi vanno attaccate, non c’è altra soluzione.
Vanno attaccate nella loro specificità. Questi attacchi non hanno
nulla delle grandi operazioni militari che qualcuno si immagina. Io ho
sempre pensato che questi attacchi sono come una gita in campagna: uno
dice: “io oggi mi sento rinchiuso in queste sedi anarchiche (che a me
francamente un po’ mi deprimono), e mi voglio fare una passeggiata”,
non stiamo sempre chiusi in queste sedi, facciamoci due passi. Con
questo atteggiamento, non dico goliardico, perché la parola è stupida,
però con questo atteggiamento diciamo sdrammatizzante, farsi una gita
in campagna è sempre possibile, non è un fatto che fa male alla
salute. E ciò senza stare molto a ricamarci sopra con le parole, senza
trasformare una gita in campagna in una specie di crociata contro gli
oppressori di oggi, di ieri, di sempre. No, una cosa piacevole,
un’attività che deve anche procurarci gioia, una gita in campagna, ma
anche una cosa specifica.
Però, le carceri vanno attaccate anche in un contesto di lotta
generale, cioè nel corso di qualsiasi lotta che riusciamo a
sviluppare. E questo è un discorso che facciamo da almeno dieci anni.
Noi, qualunque cosa facciamo, di qualunque discorso parliamo, dovremmo
farci entrare il carcere, perché il carcere è elemento essenziale di
qualunque discorso. Facciamo un discorso sul quartiere, sulla sanità,
ecc., dobbiamo trovare, e c’è il modo, di farci entrare il discorso
del carcere come struttura repressiva, denunciando tutti i tentativi
di attutire la potenzialità del carcere come elemento di disturbo
dell’equilibrio sociale.
Tenete presente che, come abbiamo visto, il carcere è un elemento in
movimento, non è una cosa ormai sigillata e definitiva. Per loro, il
carcere è un elemento di disturbo. Sono tutti continuamente messi là a
riflettere su cosa fare per risolvere il problema del carcere. Ora, il
loro problema del carcere deve diventare il nostro problema del
carcere e questo problema dobbiamo rifletterlo all’interno delle lotte
che realizziamo, se le realizziamo.
E questo, naturalmente, in attesa della prossima insurrezione, perché
nel caso dell’insurrezione, allora, basta aprire le carceri e
distruggerle definitivamente.
Grazie.