Cogliere i diversi aspetti dell’intervento rivoluzionario non è cosa facile. Coglierli tutti insieme, inseriti in una proposta complessiva che abbia una sua logica intrinseca e un’articolazione operativa valida, è cosa ancora più difficile. È questo che intendo per progetto rivoluzionario.

Sull’individuazione del nemico (quasi sempre) ci intendiamo a sufficienza. Nella vaghezza della definizione collochiamo gli elementi che ci provengono dalle nostre esperienze (sofferenze e gioie), dalla nostra situazione sociale, dalla nostra cultura. Ognuno crede di avere elementi idonei per disegnare una mappa del territorio nemico e per identificare obiettivi e responsabilità.

Che le cose non stiano poi in questo modo è fatto anch’esso normale. Ma non ce ne curiamo. Quando se ne presenta l’occasione, approntiamo le opportune modificazioni e andiamo avanti.

Oscuro il modo di procedere, oscure le cose che ci circondano, ci illuminiamo solo ed esclusivamente del misero cero dell’ideologia e sicuri come dietro la guida di un faro andiamo avanti.

Il fatto tragico è che le cose che ci circondano si modificano, spesso velocemente. I termini del rapporto di classe, che nella situazione contraddittoria si allargano e si restringono continuamente, si disvelano oggi per tornare a nascondersi domani. Così, le certezze di ieri precipitano nel buio di oggi.

Chi mantiene un polo direzionale costante, anche se non immobile, non viene preso per quello che in effetti è, cioè un onesto navigatore del mare delle perplessità di classe, ma è preso per un cocciuto ripetitore di schemi superati e di astratte metafore ideologiche. Chi persiste nel vedere il nemico dietro la divisa, dietro la fabbrica, dietro il ministero, dietro la scuola, dietro la chiesa, ecc., viene guardato con sufficienza. Alle cose, nella loro dura realtà, si vuole sostituire il rapporto astratto, il modo di essere, il relativo delle posizioni. Lo Stato, così, finisce per diventare un modo di vedere le cose, e non un fatto materiale, costituito da uomini e cose. Il risultato è che le idee dello Stato non si possono combattere senza attaccare gli uomini e le cose dello Stato. Volere combatterle isolatamente, nella speranza che la realtà materiale loro sottostante si modifichi a seguito del loro precipitare nel baratro critico delle contraddizioni logiche, è una tragica illusione idealista. Ed è quanto avviene in tempi come questi, di rinculo delle lotte e delle proposte operative.

Nessuno anarchico, per non mancare di rispetto verso se stesso, ammetterebbe la funzione positiva dello Stato. Da ciò la deduzione logica che se questa funzione non è positiva deve essere negativa, cioè deve danneggiare qualcuno a beneficio di qualcun altro. Ma lo Stato non è (soltanto) l’idea di Stato, è anche la “cosa Stato”, e questa “cosa”, è costituita dal poliziotto e dal palazzo della questura, dal ministro e dal ministero (anche dal palazzo dove il ministero ha sede), dal prete e dalla chiesa (anche il luogo dove si svolge il culto dell’imbroglio e della menzogna), dal banchiere e dalla banca, dallo speculatore e dal suo ufficio, e giù giù fino alla singola spia e al suo più o meno confortevole appartamento di periferia. Lo Stato è questa cosa articolata, o non è nulla: una vana astrazione, un modello teorico, impossibile da attaccare e sconfiggere.

Certo, lo Stato è anche dentro di noi, e dentro gli altri. Quindi è anche idea. Ma, nel suo essere idea, è subordinato ai luoghi fisici e ai corpi fisici che lo realizzano. Un attacco all’idea dello Stato (anche a quella che alberghiamo dentro di noi, spesso senza accorgercene), è possibile solo nel mentre che stiamo attaccando fisicamente e in senso distruttivo la sua materializzazione storica, cioè il suo essere lì davanti a noi in carne ed ossa e in mattoni e calcestruzzo.

Ma come attaccare? Le cose sono dure. Gli uomini si difendono e si premuniscono. La scelta dei mezzi d’attacco è anch’essa vittima di un equivoco simile a quello che precede.

Possiamo attaccare (anzi dobbiamo) con le idee, contrapponendo critica a critica, logica a logica, analisi ad analisi. Ma ciò sarebbe inutile esercitazione se avvenisse in modo isolato, staccato da un intervento diretto sulle cose e gli uomini dello Stato (e del capitale, ben s’intende). Quindi, in correlazione con quanto detto prima, non solo attacco con le idee, ma anche attacco con le armi. Non vedo altra via d’uscita. Limitarsi ad un certame ideologico contribuisce a fornire elementi al nemico. Quindi, approfondimento teorico parallelo e contemporaneo all’attacco pratico.

Di più. È proprio nell’attacco che la teoria si modifica in pratica e la pratica assume i suoi fondamenti teorici. Limitandosi alla teoria si resta nel campo dell’idealismo, tipica filosofia borghese, che ha da centinaia di anni alimentato le casseforti della classe dominante ed anche i lager degli sterminatori di destra o di sinistra. Non importa se qualche volta questo idealismo si è camuffato da materialismo (storico), sempre di quel vecchio idealismo fagocitatore di uomini si trattava. Un materialismo libertario deve per forza superare la separazione tra idea e fatto. Se si individua il nemico bisogna colpirlo, e colpirlo in modo adeguato. Non tanto adeguato alle valutazioni ottimali della sua distruzione, valutazioni fatte dall’attaccante; quanto alla situazione generale che costituisce parte non trascurabile delle difese e delle possibilità di sopravvenienza e di incremento di pericolosità del nemico. Se lo si colpisce, bisogna farlo distruggendo una parte della sua struttura, rendendo quindi più difficile il funzionamento dell’insieme. Tutto ciò, isolatamente considerato, corre il rischio di restare poco significativo. Non riesce, cioè, a convertirsi in qualcosa di reale. Per aversi questa trasformazione occorre che l’attacco sia accompagnato da un approfondimento critico delle idee del nemico, quelle idee che sono parte della sua azione repressiva e oppressiva.

Ma questo reciproco convertirsi dell’azione pratica nell’azione teorica e della teoria nella pratica, non può avvenire come qualcosa di artificialmente sovrapposto. Nel senso, per fare un esempio, di chi, compiuta un’azione, ci stampa sopra il suo bravo documento di rivendicazione. Le idee del nemico, in questo modo, non si criticano, né si approfondiscono. Si cristallizzano all’interno del processo ideologico e si fanno vedere come contrapposte massicciamente alle idee dell’attaccante, anche loro trasformate in qualcosa di massicciamente ideologico. Credo che poche cose mi siano altrettanto odiose quanto questo modo di procedere.

Esiste altro da fare?

Il luogo della conversione della teoria nella pratica, e viceversa, è il luogo del progetto. È il progetto, nel suo insieme articolato, che rende diversamente significative l’azione pratica e la critica delle idee del nemico.

Ne deriva che il lavoro del rivoluzionario è, essenzialmente, l’elaborazione e la realizzazione di un progetto.

Ma, prima di sapere cosa può mai essere un progetto rivoluzionario, occorre mettersi d’accordo su quali sono le cose che il rivoluzionario deve possedere per lavorare alla elaborazione di un suo progetto.

Per prima cosa il coraggio. Non quello, banale, dello scontro fisico o dell’assalto alla trincea nemica, ma quello più difficile delle proprie idee. Se pensa in un certo modo, se ha una certa valutazione delle cose e degli uomini, del mondo e delle sue faccende deve avere il coraggio di andare fino in fondo, senza compromessi, senza mezze misure, senza pietismi, senza illusioni. Fermarsi a metà è delittuoso o, se si preferisce, assolutamente normale. Ma il rivoluzionario non è un uomo “normale”. Deve andare oltre, oltre la normalità, ma anche oltre l’eccezionalità, che è il modo aristocratico di considerare la diversità. Oltre il bene, ma anche oltre il male, direbbe qualcuno.

Non può aspettare che altri facciano quello che va fatto. Non può delegare agli altri quello che la sua coscienza gli detta di fare. Non può accettare in pace che in altri luoghi, altri uomini come lui, come lui frementi e desiderosi di distruggere chi ci opprime, facciano le cose che lui stesso potrebbe fare, solo che lo volesse, solo che uscisse fuori dal torpore e dagli imbrogli, dalle chiacchiere e dagli equivoci. Quindi, deve lavorare, e lavorare duro. Lavorare per fornirsi dei mezzi necessari con i quali dare fondamento idoneo ai propri convincimenti.

E qui si colloca la seconda cosa: la costanza. La forza di continuare, di perseverare, di insistere, anche quando gli altri si scoraggiano e tutto sembra difficile.

Non c’è possibilità di procurarsi i mezzi di cui si abbisogna se non con la costanza del lavoro. Il rivoluzionario ha bisogno di mezzi culturali, cioè di analisi, di conoscenze di base, di approfondimenti istituzionali. Anche studi che sembrano lontanissimi dalla pratica rivoluzionaria sono indispensabili per l’azione. Le lingue, l’economia, la filosofia, la matematica, le scienze naturali, la chimica, le scienze sociali, e così via. Tutte queste conoscenze non devono però essere viste come settori di specializzazione, ma nemmeno come esercitazioni dilettantesche di uno spirito balzano che pizzica a destra e a manca, desideroso di sapere ma costantemente ignorante perché non possiede un metodo che gli consente di apprendere. E poi le tecniche: lo scrivere correttamente (ed anche in modo idoneo allo scopo che si vuole raggiungere); il parlare agli altri (con tutte le tecniche del parlare, che sono cosa non facile e di grande importanza); lo studiare (che è tecnica anch’esso e che va studiata anche in quanto tale per facilitare l’apprendimento e non come specializzazione in se stessa); il ricordare (che può migliorarsi e non essere lasciato sempre alla disposizione più o meno naturale che ci portiamo dall’infanzia); il manipolare gli oggetti, cioè l’uso delle mani (che molti considerano un misterioso dono della natura ma che invece è tecnica che si può apprendere e perfezionare) ed altre ancora. La ricerca dei mezzi è lavoro che non si esaurisce mai. Il loro perfezionamento, come il loro allargamento a campi diversi, è impegno costante del rivoluzionario.

Resta poi un terza cosa: la creatività. Non c’è dubbio che l’insieme di mezzi che si vanno costruendo non sarebbe produttivo e annegherebbe nello specialismo fine a se stesso se non producesse, da subito o dopo un certo tempo, esperienze nuove, profondamente trasformatrici dell’individuo, dalle quali esperienze si producono senza sosta modificazioni nell’insieme dei mezzi stessi e nelle possibilità di un loro impiego. È qui che si può cogliere la forza della creatività, cioè del frutto degli sforzi precedenti. I processi logici restano indietro, diventano fatto di fondo, elemento trascurabile, mentre emerge un nuovo elemento, totale e diverso, l’intuizione.

Il problema, adesso, è visto diversamente. Non più come prima. Innumerevoli raccordi e raffronti, inferenze e deduzioni, avvengono senza che ce ne accorgiamo. Tutto l’insieme dei mezzi di cui siamo entrati in possesso vibra e diventa vivo. Ricordi e nuove comprensioni, vecchie cose non capite che adesso divengono chiare, idee e tensioni. Un miscuglio incredibile che è esso stesso fatto creativo e che deve essere immediatamente sottoposto alla disciplina del metodo, al dominio delle tecniche, perché possa produrre un qualcosa, se si vuole limitato, ma immediatamente percepibile e fruibile. Purtroppo il destino della creatività è che la sua immensa potenzialità esplosiva iniziale (la quale diventa misera cosa in assenza dei mezzi di fondo di cui parlavamo prima) deve successivamente essere ricondotta all’interno dei limiti della tecnica in senso stretto, deve diventare parola, pagina, figura, suono, forma, oggetto. In caso contrario, fuori degli schemi di questa piccola prigione comunicativa, essa resta abbandonata e dispersa nel mare dell’incommensurabilità.

E infine, un’ultima cosa: la materialità. La capacità, cioè, di cogliere il fondamento materiale, reale, di quello che ci circonda. Ad esempio, la capacità di capire che per agire occorrono mezzi idonei all’azione non è cosa semplice. La faccenda dei mezzi sembra molto chiara, ma causa malcomprensioni. Prendiamo il caso dei soldi. Non c’è dubbio che senza soldi non si possono fare le cose che vogliamo fare. Non c’è dubbio che un rivoluzionario non può chiedere finanziamenti allo Stato per costruire quei progetti diretti a distruggere lo Stato stesso. Non può chiederli per un motivo etico e poi per un motivo logico (lo Stato non glieli darebbe). Non può nemmeno pensare seriamente che con piccole (e, di regola, modeste) sottoscrizioni personali si possano fare tutte le cose che si vogliono fare (e che si reputa necessario fare). Non può nemmeno continuare a piangere all’infinito sulla mancanza di soldi o rassegnarsi davanti al fatto che vista la mancanza di soldi alcune cose che si dovrebbero pur fare non si possono fare. Non può nemmeno assumere a lungo la posizione di colui che essendo senza soldi si sente perfettamente in regola con se stesso dicendo di non averne e non partecipa allo sforzo comune aspettando che altri al posto suo faccia quello che va fatto. Certo, è chiaro che se un compagno non ha i soldi non è tenuto a pagare quello che non può permettersi di pagare, ma è proprio vero che ha fatto tutto quanto poteva fare per procurarsi i soldi? Oppure esiste solo un modo per trovare i soldi: quello di andare a mendicarli facendosi sfruttare dai padroni? Penso proprio di no.

Nell’arco di variazioni di un possibile modo di essere, tendenze personali e acquisizioni culturali polarizzano due comportamenti di confine che sono entrambi limitati e penalizzanti. Da un lato, colui che privilegia il momento teorico; dall’altro, colui che si racchiude nel momento pratico. Quasi mai queste due polarizzazioni sono allo “stato puro”, ma spesso sono sufficientemente caratterizzate per diventare impedimenti.

Le grandi possibilità che l’approfondimento teorico mette a disposizione del rivoluzionario, restano lettera morta, anzi, diventano elemento di contraddizione e di ostacolo, quando sono esasperate all’infinito. C’è chi non sa fare altro che pensare teoricamente la vita. Non occorre che sia un letterato o uno studioso (per questa gente, la cosa sarebbe quasi normale), ma può anche essere un proletario qualsiasi, un emarginato cresciuto nella strada facendo a cazzotti. Questa ricerca dell’ipotesi risolutiva attraverso la sottigliezza del ragionamento, si trasforma in un’ansia disorganica, un tumultuoso desiderio di capire che immancabilmente si trasforma in pura confusione, abbassando quel primato del cervello che pure si vuole mantenere a qualsiasi costo. Queste esasperazioni riducono la possibilità critica di mettere ordine nelle proprie idee, allargano la possibilità creativa dell’individuo ma soltanto allo stato puro, si potrebbe dire allo stato brado, fornendo immagini e giudizi assolutamente privi di un metodo organizzativo che li possa rendere utilizzabili. Il soggetto vive in una specie di trance, mangia male, ha un pessimo rapporto col proprio corpo, vive male il rapporto con gli altri. Diventa facilmente sospettoso, se non altro ansioso di essere capito, e per questo accumula sempre di più una farragine di ragionamenti contraddittori, senza essere capace di trovare un filo conduttore. La soluzione, per uscire dal labirinto, sarebbe l’azione. Ma l’azione, per essere tale, secondo questo modello di polarizzazione che stiamo esaminando, deve prima essere sottoposta al dominio del cervello, della logica, del ragionamento. In questo modo, l’azione viene uccisa o rinviata, o vissuta male perché non capita, perché non ricondotta al primato del pensiero.

Dall’altro lato, la costanza del fare, il dispiegamento della propria vita nelle cose da portare a compimento. Oggi, domani. Giorno dopo giorno. Magari nell’attesa di un giorno particolare che metta fine a questo rinvio in avanti all’infinito. Ma nel frattempo nessuna, o quasi, ricerca di un attimo di riflessione che non sia esclusivamente attinente alle cose da fare. Il primato del fare uccide come il primato del pensare. Nell’azione, da per se stessa, non c’è il superamento del momento contraddittorio dell’individuo. Per il rivoluzionario le cose stanno ancora peggio. I corteggiamenti classici, che l’individuo sviluppa per convincere se stesso riguardo l’utilità e la completezza dell’azione che vuole fare, non bastano per il rivoluzionario. L’unico espediente, cui può fare ricorso, è il rinvio in avanti, ad un tempo migliore, quando non sarà più necessario dedicarsi esclusivamente al fare e si potrà anche pensare. Ma, come si potrà pensare senza i mezzi per poterlo fare? Forse che il pensiero è un’attività automatica dell’uomo quando smette di agire? No di certo. Allo stesso modo in cui il fare non è un’attività automatica dell’uomo quando smette di pensare.

Possedute quindi alcune cose, il coraggio, la costanza, la creatività, la materialità, il rivoluzionario può mettere a frutto i mezzi di cui è in possesso e, con questi, costruire il suo progetto.

E questo dovrà riguardare gli aspetti analitici e gli aspetti pratici. Ancora una volta si ripresenta una divisione che per potere essere eliminata deve approfondirsi fino in fondo, cioè nella sua reale dimensione di luogo comune della logica dominante. Un progetto è analisi (politica, sociale, economica, filosofica, ecc.), ma è anche proposta organizzativa.

Nessun progetto può essere solo l’uno o l’altro di questi aspetti. Ogni analisi riceve una diversa angolazione e un differente sviluppo se viene inserita in una proposta organizzativa anziché in un’altra. E viceversa, una proposta organizzativa diventa fondata solo se viene assistita da un’analisi idonea.

Il rivoluzionario che non sia in grado di padroneggiare l’analisi e l’elemento organizzativo del suo progetto, sarà sempre in balia degli eventi, arrivando costantemente subito dopo le cose, mai prima.

Lo scopo del progetto è infatti quello di vedere per prevedere. Il progetto è una protesi, come qualsiasi altra elaborazione intellettuale dell’uomo, per consentire l’azione, per renderla possibile, per non nullificarla nel dibattersi inutile dell’improvvisazione, ma non è “causa” dell’azione. Il progetto, se correttamente inteso, è azione esso stesso, mentre l’azione è progetto essa stessa in quanto lo accresce, lo arricchisce, lo trasforma.

Il non capire queste fondamentali premesse del lavoro rivoluzionario causa, spesso, confusioni e frustrazioni. Molti compagni, che restano legati agli interventi che possiamo definire riflessi, subiscono sovente contraccolpi simili alle demotivazioni, agli scoraggiamenti. Un fatto esterno (la repressione, quasi sempre), determina lo stimolo ad un intervento. Quando quel fatto si arresta, o si esaurisce, l’intervento non ha più ragione di esistere. Da qui la constatazione (frustrante) che si è costretti a tornare al punto di prima. Si ha l’impressione di volere scavare una montagna con un cucchiaio. La gente non ricorda, dimentica presto. L’aggregazione non avviene. Si è quasi sempre in pochi. Quasi sempre i soliti. Fino all’avvento del prossimo stimolo esterno, le vicende del compagno che sa agire solo di riflesso, sopravvivono andando spesso dal rifiuto radicale alla chiusura in se stesso, dal mutismo sdegnato alle fantasticherie di distruzione del mondo (esseri umani compresi).

Molti altri compagni restano invece legati agli interventi che possiamo definire di routine, cioè legati alle ricorrenze letterarie (giornali, riviste, libri) o assembleari (congressi, convegni, dibattiti, assemblee). Anche qui la tragedia umana non tarda a fare la sua comparsa. Il più delle volte non si tratta tanto della frustrazione personale (che anche questa c’è, e si vede), quanto della trasformazione del compagno in burocrate congressuale o in redattore di fogli più o meno leggibili che cercano di nascondere la propria inconsistenza propositiva andando dietro agli avvenimenti per spiegarli alla luce critica del proprio punto di vista. Come si vede la tragedia è sempre la stessa.

Il progetto è quindi necessariamente propositivo. È l’elemento che conclude e salda l’affinità. Questa, partita dalla conoscenza fra i diversi compagni che fanno parte del gruppo di affinità, sboccia nel terreno progettuale, dove cresce e dà i suoi frutti. Essendo propositivo, il progetto non può non prendere l’iniziativa. Innanzi tutto, iniziativa di tipo operativo: le cose da fare, viste in un determinato modo. Poi, iniziativa di tipo organizzativo: come fare queste cose.

Molti non si rendono conto che le cose da fare (contrapposizione di classe) non sono codificate una volta per tutte, ma che assumono, nel tempo e nel trascorrere delle relazioni sociali, significati diversi. Ciò comporta la necessità di valutazioni teoriche delle cose da fare. Il fatto che alcune di queste cose permangano più a lungo come se fossero immobili, non significa che siano immobili. Per esempio, che ci sia una necessità di organizzarsi per colpire il nemico di classe comporta, in quanto necessità, una permanenza nel tempo. Mezzi e modi organizzativi tendono a cristallizzarsi. E sotto certi aspetti è bene che sia così. Non è necessario inventare tutto di sana pianta ogni volta che ci si riorganizza, magari dopo avere subito i colpi della repressione. Ma ciò non vuol dire che questa “ripresa” debba per forza presentare le caratteristiche della ripetitività assoluta. I modelli precedenti possono essere sottoposti a critica anche se, in fondo, restano validi e quindi possono costituire un punto di partenza non trascurabile. In questa materia ci si sente, spesso, sotto il mirino delle critiche, anche disinformate e preconcette e si vuole evitare, a tutti i costi, l’accusa di irriducibilismo che suona sì come valutazione positiva, ma contiene anche un elemento notevole di denuncia dell’incapacità di capire l’evolversi delle condizioni sociali nel loro insieme.

Quindi, possibilità di utilizzo di vecchi modelli organizzativi, purché sottoposti a critica radicale. Ma quale potrà essere questa critica? Principalmente una: denuncia dell’inutilità e della pericolosità di strutture centralizzate e organigrammate, denuncia della mentalità della delega, denuncia del mito del quantitativo, denuncia del mito del simbolico e del grandioso, denuncia del mito dell’utilizzo dei grandi mezzi di informazione, ecc. Come si vede, si tratta di critiche che fanno vedere l’altro aspetto del cielo rivoluzionario, l’aspetto anarchico e libertario. Negare le strutture centralizzate, gli organigrammi dirigenziali, la delega, il quantitativo, il simbolico, l’entrismo informativo, ecc., significa entrare in pieno nella metodologia anarchica. E una propositività anarchica necessita di alcune considerazioni preliminari.

Agli inizi, specie per chi non è profondamente convinto della necessità e della validità di questo metodo, esso può sembrare (e, sotto certi aspetti, è) meno efficace. I risultati sono più modesti, meno evidenti, hanno tutto l’aspetto della dispersione e della non riconducibilità ad un progetto unitario. Sono risultati polverizzati e diffusi, cioè derivano da obiettivi minimi che non sembrano subito riconducibili ad un nemico centrale, almeno per come appare nelle iconografie descrittive redatte dal potere stesso. Molte volte il potere ha interesse a far vedere le diramazioni periferiche di se stesso, e delle strutture che lo reggono, sotto aspetti positivi, come se queste diramazioni assolvessero funzioni sociali indispensabili alla vita. Nasconde invece assai bene, e molto facilmente vista la nostra incapacità di denunciare le connessioni, il rapporto che passa tra queste strutture periferiche e la repressione o il reperimento del consenso. Da qui il notevole compito che spetta al rivoluzionario, il quale, colpendo, ha anche da aspettarsi una iniziale non comprensibilità delle sue azioni, da dove la conseguente necessità di chiarimenti. E qui si colloca una ulteriore trappola. Tradurre questi chiarimenti in termini ideologici significa ripresentare, nella diffusione e nella perifericità, le condizioni esatte della concentrazione, della centralità. Il metodo anarchico non può mai essere spiegato attraverso un filtro ideologico. Quando ciò è accaduto, si è semplicemente giustapposto il nostro metodo a pratiche e a progetti che ben poco di libertario possedevano.

Dalla denuncia della delega, come pratica deleteria, oltre che autoritaria (questo secondo aspetto potrebbe suonare meno comprensibile a compagni non anarchici da sempre), porta all’approfondimento dei processi aggregativi. Porta cioè alla possibilità di costruire una aggregazione indiretta fondata sull’affinità e l’informalità, cioè una forma di riferimento organizzativo che non sia condizionata da basi organigrammatiche. Gruppi separati, uniti insieme dall’affinità e da una metodologia comune, non da rapporti gerarchici. Obiettivi comuni, scelte comuni, ma indirette, il tutto voluto attraverso l’oggettività delle scelte comuni, delle analisi comuni, degli scopi comuni. Ognuno fa le proprie cose e non sente il bisogno di proporre rapporti aggregativi diretti che finiscono, prima o poi, per costruire organigrammi gerarchici (anche se orizzontali, in quanto si pretende restare all’interno del metodo anarchico) e che hanno come bel risultato quello di essere distrutti da ogni alzarsi del vento repressivo. È il mito del quantitativo che deve cadere. Il mito del numero che impressiona il nemico, il mito delle “forze” da fare scendere in campo, il mito dell’“esercito di liberazione” e altre faccende del genere.

Così, senza quasi volerlo, le vecchie cose si trasformano in nuove. I modelli del passato, obiettivi e pratiche, si rivoluzionano al proprio interno. Emerge in primo piano, senza ombra di dubbio, la fine definitiva del metodo politico, la pretesa di ripresentare modelli ideologici da imporre alle pratiche sovversive.

Sotto altri aspetti, e fatte le debite proporzioni, è tutto il mondo nel suo insieme che sta rigettando il modello politico. La “fine” del politico è faccenda di ogni giorno. Le strutture politiche tradizionali, con le loro connotazioni forti, sono o stanno tramontando. I partiti della sinistra si uniformano a quelli di centro e i partiti di destra si stringono sempre verso il centro per non restare isolati. Questo cedimento delle impalcature politiche corrisponde ad una profonda modificazione delle strutture economiche e sociali. Nuove necessità emergono per coloro che devono pensare alla gestione delle potenzialità sovversive delle grandi masse. I miti del passato, anche quello della “lotta di classe controllata” sono finiti. Le grandi masse di sfruttati sono state risucchiate in meccanismi che fanno a pugni con le ideologie politiche di ieri, nette ma superficiali. Ecco perché i partiti di sinistra si sono avvicinati a posizioni di centro, il che, in sostanza, corrisponde ad uno azzeramento delle discriminanti politiche e ad una possibile gestione, in proprio, del consenso, se non altro dal punto di vista amministrativo. Sono le cose da fare, i programmi a brevissimo termine, la gestione della cosa pubblica, che focalizzano le discriminanti. I progetti politici ideali (e quindi ideologici) sono tramontati. Nessuno (o quasi) è disponibile a lottare per una società comunista, ma può ancora una volta essere irreggimentato all’interno di strutture che pretendono salvaguardare i suoi interessi immediati. Da ciò la crescita di importanza delle lotte e degli schieramenti politici municipali nei confronti delle strutture politiche di più ampio respiro, parlamenti nazionali e sovranazionali.

Il tramonto del politico non è da per se stesso, a questi livelli, elemento che può far pensare ad una svolta “anarchica” nella società, la quale, presa coscienza della propria primarietà, si contrappone ai tentativi di gestione politica indiretta. Niente di tutto questo. Si tratta di modificazioni profonde nella struttura moderna del capitale, che si uniforma anche a livello internazionale, proprio per la sempre maggiore interdipendenza che oggi esiste tra le diverse realtà periferiche. Queste modificazioni determinano, a loro volta, l’impossibilità di un controllo consensuale attraverso i miti politici del passato e il passaggio a metodi di controllo più adeguati ai tempi.

Comunque, per quanto strano possa sembrare, la crisi del politico, in quanto fenomeno generalizzato, comporterà necessariamente una crisi dei rapporti gerarchici, di delega, ecc., cioè di tutti quei rapporti che tendono a dislocare nella dimensione ideologica quelli che sono i termini reali della contrapposizione di classe. Ciò non potrà restare a lungo senza conseguenze anche sulla capacità di molta gente di capire che la lotta non può più passare attraverso i miti del politico, ma deve entrare nella dimensione concreta della distruzione immediata del nemico.

Esistono anche coloro i quali non volendo capire, nella sostanza, quale deve essere il compito del rivoluzionario, si fanno propugnatori, davanti alle modificazioni sociali viste prima, di metodi di contrapposizione dolce, i quali pretenderebbero di ostacolare il nuovo dominio con la resistenza passiva. Si tratta, a mio avviso, di un equivoco basato sul fatto che si pensa il potere moderno, proprio perché più permissivo e più largamente basato sul consenso, meno “forte” di quello del passato, basato sulla gerarchia e sulla centralizzazione assolute. È un errore come un altro, e deriva dal fatto che dentro di ognuno di noi restano i residui di un parallelo: potere-forza, che le moderne strutture dominanti stanno smontando pezzo per pezzo. Un potere debole ma efficiente è, forse, un potere più efficace di un potere forte ma grossolano. Il primo penetra nei tessuti psicologici della società, fin dentro l’individuo, coinvolgendo; il secondo resta esterno, fa la voce grossa, morde, ma, in fondo, costruisce solo mura di prigioni che prima o poi si possono scalare.

La molteplicità degli aspetti del progetto conferisce al lavoro del rivoluzionario una prospettiva anch’essa molteplice. Nessun campo di possibile attività può essere escluso a priori. Non possono, per lo stesso motivo, esistere campi di intervento privilegiato, campi “congeniali” all’individuo singolo. Conosco compagni che non si sentono portati per alcuni settori d’intervento – poniamo per la lotta di liberazione nazionale – o per alcune pratiche rivoluzionarie, come l’attività minoritaria specifica. Le obiezioni che reggono il rifiuto di un certo campo di intervento sono le più varie, ma si riconducono tutte all’idea (errata) che ognuno deve fare le cose che gli arrecano la massima soddisfazione possibile. Questa idea è errata non perché non sia giusto che una delle molle dell’azione sia la gioia e la soddisfazione personale, ma perché la ricerca di questa motivazione individuale può essere preclusiva di un’altra ricerca più ampia e significativa, quella che si fonda sulla totalità dell’intervento. Partire preconcetti nei riguardi di determinate pratiche o teorie significa trincerarsi – esclusivamente per “paura” – dietro il fatto, quasi sempre illusorio, che quelle pratiche e quelle teorie non ci piacciono. Ma ogni rifiuto preconcetto è sempre fondato sulla scarsa conoscenza di quello che si rifiuta, sulla scarsa o nulla disponibilità ad avvicinare la cosa che si rifiuta. La soddisfazione e la gioia di oggi vengono così elette a scopo definitivo, nella loro immediatezza esse ci chiudono le prospettive di domani. Diventiamo, senza volerlo, paurosi e dogmatici, astiosi verso coloro che riescono a superare questi ostacoli, sospettosi verso tutti quelli che ci avvicinano, scontenti, infelici.

L’unico limite accettabile è quello delle nostre (limitate) possibilità. Ma anche questo limite può essere individuato sempre nel fatto concreto e non sospettato come esistente a priori. Io sono sempre partito dall’ipotesi (evidentemente assurda, ma operativamente reale) di essere senza limiti, di avere possibilità e capacità immense. Poi, la pratica, quella di ogni giorno, si è incaricata di indicarmi i limiti oggettivi miei e delle cose che sono andato facendo. Ma questi limiti non mi hanno mai fermato a priori, sono emersi come ineluttabili ostacoli a posteriori. Nessuna impresa, per quanto incredibile o gigantesca mi ha bloccato prima di cominciarla. Solo dopo, nel corso delle pratiche ad essa relative, la modestia dei miei mezzi e delle mie capacità è emersa ma, pur con la sua invalicabile presenza, non mi ha potuto impedire di cogliere risultati parziali che poi sono le sole cose umanamente attingibili.

Ma anche questo fatto è un problema di mentalità, cioè di modo di vedere le cose. Spesso si resta troppo legati all’immediatamente percepibile, al realismo socialista del quartiere, della città, della nazione, ecc. Si è internazionalisti a chiacchiere ma, nei fatti concreti, si preferisce quello che è più conosciuto. In questo modo ci si chiude verso l’esterno e verso l’interno. Si rifiutano i rapporti internazionali reali, che sono rapporti di comprensione reciproca, di superamento delle barriere (anche linguistiche), di collaborazione e di mutuo scambio. Ma si rifiutano anche i rapporti specifici locali, con le loro caratteristiche, le loro contraddizioni interne, i loro miti e le loro difficoltà. Il fatto comico è che i primi si rifiutano in nome dei secondi e i secondi in nome dei primi.

Lo stesso accade riguardo le attività specifiche, preparatorie, dirette al reperimento dei mezzi rivoluzionari. Anche qui la delega ad altri compagni è un fatto che, spesso, viene deciso a priori. Ci si basa su remore e paure che, se ben approfondite, non hanno molto da dire. Il professionalismo che viene sbandierato altrove non trova ospitalità nella metodologia anarchica, ma nemmeno il rifiuto a priori, o la chiusura preconcetta. Lo stesso per quanto accade in merito alla smania dell’esperienza fine a se stessa, dell’urgenza del fare, della soddisfazione personale, del brivido. I due estremi si toccano e si compenetrano a vicenda.

Il progetto spazza via questi problemi perché riesce a vedere le cose nella loro globalità. Per lo stesso motivo il lavoro del rivoluzionario è necessariamente legato al progetto, si identifica con questo, non può limitarsi ad aspetti parziali. Da canto suo, un progetto parziale non è un progetto rivoluzionario, può essere un ottimo progetto di lavoro, può impegnare compagni e risorse anche per lunghi periodi di tempo, ma, prima o poi, finisce per risultare penalizzato di fronte alla realtà dello scontro di classe.

Alfredo M. Bonanno

[Pubblicato su “Anarchismo” n. 59, gennaio 1988, pp. 45-52 con il titolo “Il lavoro del rivoluzionario” e inserito in Anarchismo insurrezionalista [1999], II ed., Edizioni Anarchismo, Trieste 2009, pp. 166-188.]