Title: Il problema del furto. Clément Duval
Notes: Parte di quanto pubblicato come Introduzione a Clément Duval, Memorie autobiografiche, Arkiviu-Bibrioteka “T. Serra”, Guasila 1996, pp. 7-50 e in A mano armata [1998], II ed., Edizioni Anarchismo, Trieste 2009, pp. 88-89 e 94-116.

Clément Duval nasce nella regione della Sarthe, in Francia, nel 1850. Il 17 ottobre 1886 viene arrestato a Parigi. Nel corso dell’arresto colpisce con diversi colpi di coltello l’ispettore Rossignol. Il 12 gennaio è condannato a morte dalla Corte d’assise.

Duval faceva parte del gruppo “La Panthère des Batignolles”, costituito da compagni che si rifacevano alla tesi anarchica di quello che allora si chiamava “la propaganda con i fatti”.

Nello stesso tempo, insieme ai suoi compagni, realizza una serie di furti per finanziare le attività del movimento anarchico. Egli non si definisce un “ladro”, ma un “derubato”, come vedremo più avanti esaminando la sua dichiarazione al processo.

L’ultimo furto, avvenuto in una ricca casa di rue de Monceau, è accompagnato da un incendio, con il quale Duval e i suoi compagni vogliono distruggere quelle tracce di ricchezza che non possono portare via. L’indomani Duval è arrestato presso un ricettatore.

Interrogato il primo giorno del processo egli risponde subito e senza mezzi termini alla domanda del presidente Bérard des Glajeux: “Sì, i parassiti non devono avere gioielli mentre i lavoratori, i produttori non hanno il pane. Non ho che un rimpianto, quello di non avere trovato i soldi, che pensavo di recuperare per poterli impiegare nella propaganda rivoluzionaria, e non sarei qui sul banco degli imputati ma intento a fabbricare bombe per farvi saltare in aria”.

A difenderlo è l’avvocato Fernand Labori, giovane avvocato d’ufficio, che poi difenderà Pini, Vaillant, altri compagni anarchici e, ormai famoso, Dreyfus. Il 23 febbraio 1887 la condanna è commutata nei lavori forzati a vita, da scontarsi alla Guyane.

Clément Duval è un anarchico. Le sue Memorie, per quanto ricche di fatti se si vuole fuori del normale e di sofferenze, non sarebbero altro che una storia come tante altre, se non si tenesse presente questa scelta essenziale.

Di fronte alla situazione che Duval trova una volta uscito dal bagno penale, tornato diciamo nella cosiddetta “libertà”, sia pure considerando la difficoltà per un internato di integrarsi non solo nella società ma principalmente nella lotta rivoluzionaria, qualcosa gli fa rimpiangere la deportazione. Come dire, qualcosa gli fa rimpiangere di non essere morto accanto agli altri compagni nelle insurrezioni, o nel corso delle tanti evasioni, senza più uscire dalla situazione del penitenziario. Perché?

La risposta è evidente. Duval è un uomo semplice, appartiene in fondo a un’altra epoca, non è disposto ad accettare le piccole compromissioni di ogni giorno. E queste compromissioni sono moltissime, e quanto dovettero pesargli, una volta uscito dal bagno penale. Le sue ultime parole, rivolte ai compagni, con le quali completa le sue Memorie, sono le seguenti:

«Compagni,

«Vi porgo il rendiconto esatto di una vita vissuta in un inferno, il bagno.

«Vi ho detto, grosso modo, quello che ero, quello che sentivo prima di entrarci.

«Alla mia uscita, vi ho raccontato la mia vita più intima, allo scopo di farvi conoscere i risultati che nessun fisiologo, psicologo professionista potrebbe fare, non avendo sentito essi stessi gli effetti di una vita anormale.

«È per questo che vi dico:

«Se fra di voi vi sono alcuni che non possono più aspettare, che sono stanchi di essere sempre acciaccati, schiacciati, ecc., e vogliono fare giustizia, compagni, andate fino in fondo.

«Ma prima riflettete bene. Perché se avete la debolezza di pensare di rivedere i vostri affetti, sappiate che sarebbe molto sorprendente ritrovarli, dopo tanti anni di assenza, così come dovrebbero essere. Può essere che, come mi è accaduto, vi si subisserà di rimproveri, vi si calunnierà. Avrete il dolore di constatare che voi o i vostri atti non sono stati compresi, o sono stati snaturati. A causa della calunnia vedrete i migliori compagni che vi stimavano staccarsi da voi e restare solo, misconosciuto. A parte la gioia di non esserlo per quei pochi che vi conoscono bene, che vi apprezzano e che vi stimano. Quest’ultimo aspetto mi ha aiutato a sopportare tanti rancori.

«Dunque, compagni, se agite, fatevi piuttosto uccidere sul posto, tagliare la testa.

«Ma non andate mai al bagno penale».

Quando, a proposito delle posizioni assunte dal movimento anarchico francese, nell’insieme della sua ufficialità perbenista, contro Bonnot e i suoi compagni, Duval scrive ad uno dei patriarchi dell’anarchismo, l’allievo di Kropotkin e futuro firmatario del “Manifesto dei Sedici”, Jean Grave, chiedendo spiegazioni della condanna pronunciata, si sente rispondere che lui, Duval, aveva dato con le sue azioni un cattivo esempio e che proprio attraverso il suo esempio “una gran quantità di ruffiani aveva invaso il movimento richiamandosi al suo caso per giustificare i propri appetiti”.

Come si vede, nulla di nuovo sotto il sole.

È logico che chi ha dell’anarchismo una visione quantitativa, non può non essere preoccupato del dilagare, ma anche del semplice loro accennarsi, di episodi capaci di attaccare direttamente la proprietà e le persone dei responsabili dello sfruttamento.

Forse è arrischiato concludere che le preoccupazioni di questi anarchici sono determinate da un loro rifiuto dello scontro e da una gestione possibilista del rapporto con lo Stato. Con ogni probabilità anche loro hanno una concezione conflittuale dell’essere anarchici in una situazione in cui il nemico continua, come sempre, ad opprimere e a sfruttare.

Ma pensano che lo scontro debba essere affidato a grandi movimenti di classe, a larghe componenti della società che soffre e subisce in silenzio, e fin quando questi movimenti non si verificano, aspettano e si limitano a veicolare messaggi critici ed esortazioni ad aspettare il momento opportuno, evitando di diluire le forze in rivolte individuali e velleità prive di senso.

Il gruppo di compagni che da solo, dopo un accordo fra tutti i componenti, inizia il proprio cammino – come la “Pantera” di cui faceva parte Duval – inoltrandosi nel terreno del furto, dell’incendio, del sabotaggio, insomma della distruzione dei beni (e qualche volta anche delle persone) degli oppressori, viene spesso accusato di avere intrapreso una fuga in avanti, una scorciatoia che perde di vista l’obiettivo a lunga scadenza, la rivoluzione delle grandi masse, diretta coscientemente a uno scopo, quello dell’emancipazione definitiva.

Per motivi del tutto inversi, i pochi compagni che da sempre si sono disposti verso una immediata, e diretta, azione di attacco, non vedono gli altri compagni, cioè i sostenitori dell’attesa e dell’organizzazione di grandi masse in vista della rivoluzione, come loro antagonisti.

Anzi, al contrario, tutto il lavoro di chiarificazione, di propaganda, di organizzazione presso gli sfruttati, è visto da questi compagni come un lavoro indispensabile, fruttuoso di conseguenze positive, perché se il furto (per ridurre il ragionamento all’osso) consente di attaccare la proprietà, esso si traduce in definitiva in una punzecchiatura di spillo davanti alla paurosa messe di teste blasonate che si può falciare nel corso di una sola insurrezione popolare ben riuscita, per quanto breve e circoscritta.

Solo che il furto può essere realizzato ora, domani, anche con pochi compagni, e col ricavo del furto si può allargare l’attività rivoluzionaria e anche si può strappare la propria libertà di movimento e di tempo alle rapinose intenzioni sfruttatrici di chi offre salario in cambio di consenso, mentre la grande insurrezione di massa, la rivoluzione sovvertitrice di rapporti produttivi e di valori, può stentare a venire.

E non solo il furto, ma l’attacco distruttivo, il sabotaggio, l’individuazione di un personaggio preciso, quello e non l’altro, oppure di un personaggio qualsiasi appartenente alla classe dei dominatori, ecco, tutto questo è di certo più a portata di mano, e non contrasta con il lavoro degli altri compagni, con l’organizzazione, con la propaganda a lunga scadenza, con i dibattiti e le conferenze, con i comizi, i giornali, i libri e tutti gli altri veicoli con i quali, tradizionalmente o meno, si diffonde l’anarchismo.

Duval sosteneva il movimento, e il guru Jean Grave non poteva smentirlo al momento della sua deportazione alla Guyana. Bonnot e compagni non avevano rapporti certi di questo tipo col movimento, non sembra lo sostenessero direttamente.

Forse se avessero avuto la possibilità di continuare nelle loro attività, clamorose ma in fondo appena iniziate, l’avrebbero sostenuto, e il buon Grave non si sarebbe arrischiato a considerarli dei “ruffiani”.

Dico forse, perché non posso sapere quale strada potevano prendere Bonnot e i suoi compagni. E in fondo non posso sapere nemmeno se il motivo della condanna di Grave sia stato la mancanza di sostegno. Fatto sta che qualche anno dopo, all’epoca dei finanziamenti di Durruti e Ascaso a favore della Enciclopedia di Faure, non vennero fuori condanne del genere da parte delle agguerritissime lingue critiche dell’anarchismo francese. Tutt’altro. Pochi anni, e la fucina santificante del sacrificio spagnolo cancellò per sempre ogni preoccupazione in questo senso. Lo stesso è successo con Sabaté e Facerias. Lo stesso potrebbe succedere anche oggi, per quanto non essendo documentato su quello che accade adesso, preferisco tacere.

È capitato anche a me ascoltare critiche e malignità nei riguardi di compagni che attaccavano ora e subito la proprietà, e si trattava non solo di persone preoccupate per i rischi del proprio orticello, ma anche di chi cercava il pelo nell’uovo per non farsi coinvolgere in operazioni troppo arrischiate per il proprio cuore di coniglio.

Poi, passato il pericolo, il giudizio tornava ecumenico, i compagni (alcuni, nel frattempo, morti) venivano riabilitati, le loro pratiche risultavano “interessanti”. E di questi critici ho in mente solo i migliori.

Duval avverte i compagni del destino che li attende: saranno calunniati e i loro atti resteranno incompresi. Nulla di più vero. Non potrebbe essere diversamente.

Immaginatevi insieme a me, lettori sia pure sospettosi, come mi auguro che siate, di queste pagine, un compagno anarchico impiegato al comune, un altro funzionario di banca, un maestro di scuola, un professore universitario, un operaio sindacato, oppure un disoccupato che trova costante assillo in famiglia per l’impossibilità di trovare un lavoro fisso.

Immaginatevi, vi prego, un padre di famiglia affascinato dalle idee di libertà che l’anarchismo propaganda, idee bellissime che aprono il cuore e sviluppano il cervello, immaginatevi questo padre di famiglia in preda ai quotidiani problemi di come educare la prole, mantenere salda l’unità familiare, dare un avvenire ai propri figli, soddisfare i desideri della moglie, guadagnare di che vivere. Migliaia di compagni vivono queste asperrime contraddizioni. Ne ho visto dei migliori soccombere sotto il peso di una regolarità di gesti e di una sacralità di bisogni. In questo modo i sogni inaridiscono, le idee sfumano, l’abitudine trionfa, l’amarezza e il disinganno distruggono ogni ideale.

L’anarchia resta una vuota parola riempita di ricordi, di sogni dimezzati, di letture soporifere, di avventure vissute per interposta persona. Quello che fino a ieri era ribellione o, almeno, desiderio di contrattaccare il nemico per sentirsi vivi, adesso è metodica rassegna di una visione mortificata del proprio essere anarchici. E questa rassegna, a lungo andare, si trasforma in vigile e gelosa custodia di limiti e precisazioni.

Brava gente questi anarchici.

Grandi lettori di libri, tutti con la loro brava biblioteca a casa, dove in bell’ordine fanno mostra di sé i classici dell’anarchismo e quant’altro è stato pubblicato (ahimè, forse troppo) sull’argomento.

Brava gente, ma sospettosa. Se qualcuno alza un poco la voce, subito si sentono attaccati. Non parliamo se poi qualcuno allunga la mano sulla proprietà altrui. I loro sogni mortificati gridano vendetta.

Ma, siamo sinceri con noi stessi, come potrebbero un impiegato al comune, un bancario (genere che chi scrive conosce molto bene), o un maestro di scuola, non restare turbati davanti all’attitudine di un compagno capace di alzare il braccio e colpire la proprietà altrui?

Non dico che l’impiegato, il bancario, il maestro di scuola, se anarchici, siano a favore della proprietà, tutt’altro, dico che sono contrari, ma soltanto in teoria. L’eliminazione della proprietà deve, per loro, avvenire contemporaneamente all’avverarsi della rivoluzione sociale, quindi in una condizione che renderebbe di fatto impossibile la sua esistenza.

Ogni attacco parziale invece non fa altro che mettere in discussione lo scontro tra avversarsi e sostenitori della proprietà, e siccome loro (gli impiegati al comune, i bancari, i maestri di scuola) si sentono avversari della proprietà, la cosa li fa stare inquieti. Essi sono così sollecitati a chiedersi: “Ma se noi siamo contro la proprietà, perché restiamo al di qua? perché non facciamo qualcosa per attaccarla subito?”.

Tragica domanda, alla quale la risposta più immediata e logica diventa impossibile. Infatti, se rispondessero: “È vero bisognerebbe attaccarla subito e non aspettare che tutto si risolva nella rivoluzione delle grandi masse in movimento”, si scoprirebbero in contraddizione con se stessi, con la propria vita quotidiana, con le imposte da pagare, con i figli cui pensare e tutto il resto.

I libri di anarchia, da soli, non hanno mai insegnato a nessuno ad attaccare la proprietà e il dominio. Certo, sono elementi importanti che concorrono a chiarire le idee dei compagni, che suggeriscono percorsi d’azione e di riflessione. Ma non bastano.

Occorre un elemento in più. Occorre il cuore, la decisione, il coinvolgimento, il superamento di una frattura morale che non è facile da superare. Quando, davanti agli occhi del nostro maestro di scuola, del nostro bancario o del nostro impiegato comunale, passa la figura d’un Duval, essi ne restano affascinati.

Ma si tratta di un’impressione vicaria. Quella figura impersona tutto ciò che loro non sono mai riusciti a fare, che mai saranno capaci di fare, e di questa carenza ne soffrono, e soffrendone se ne forniscono giustificazione, non ultima quella della condanna del gesto d’attacco, diretto, immediato. E dalla giustificazione della propria debolezza alla calunnia per la forza che non si può non ammirare negli altri, il passo è breve.

Non voglio porre al centro dell’attenzione il furto, il sabotaggio, la distruzione degli uomini e delle cose attraverso i quali si realizza lo sfruttamento. La rivoluzione anarchica è faccenda molto più complessa e articolata.

L’argomento è suggerito qui dalla figura di Duval, quindi non ne sto parlando perché il dente duole da quella parte. I progetti rivoluzionari degli anarchici non possono basarsi soltanto sui cinque franchi di contributo cui faceva riferimento Malatesta nell’ambito delle preoccupazioni riguardo le scelte dei suoi compagni.

La decisione di attaccare a livello di piccoli gruppi non è superiore in alcun modo alla lotta di chi si muove diversamente, di chi diffonde le idee anarchiche poniamo distribuendo un giornale, di chi discute e approfondisce i singoli problemi in tutte le occasioni possibili, di chi partecipa a tutta una serie di lotte intermedie che sembrano non avere sbocco, ma che possono sempre innescare la scintilla per fatti insurrezionali di più ampio respiro.

Qui non si pongono questioni disgraziate di graduatorie o di merito. Il problema è invece inverso. Molte delle polemiche che hanno da sempre tagliato a fette il movimento anarchico, molte delle calunnie, fra cui quelle cui faceva riferimento Duval, sono venute da condanne cieche nei riguardi delle scelte di attacco immediato fatte da compagni sostenitori di altre strategie di intervento.

Jean Grave, per fare un esempio lontano, non poteva essere favorevole alla cosiddetta “propaganda con i fatti”, di cui Duval fu uno degli iniziatori, per un suo concetto di fondo dell’anarchismo legato alla progressiva, e illimitata, educazione delle masse, in vista di una gloriosa conclusione rivoluzionaria che avrebbe costruito, da un giorno all’altro, il mondo futuro della libertà.

Certo, questa sua diversa impostazione, del tutto legittima, non giustifica le ignominie realizzate contro compagni (ad esempio contro Bonnot e gli altri) che avevano un altro modo di agire. E quanti sono i compagni che oggi, scelta una diversa forma d’intervento anarchico nella realtà, calunniano e denigrano i compagni che invece, oggi come ieri, insistono nell’attacco diretto e immediato contro persone e cose responsabili dello sfruttamento? Sono di certo legione.

Ma limitiamoci al problema del furto.

In fondo il bisogno di soldi che tutti avvertiamo può essere risolto in due modi: lavorando o rubando. Esiste un terzo modo, che qui escludo per definizione, quello di essere dei rentier, dei ricchi possidenti e non mi risulta che anarchici di questo tipo ne siano esistiti, se non per sbarazzarsi al più presto di quello che la sorte aveva fatto pesare sulle loro spalle.

Certo, esiste qualche industriale che giocando sull’equivoco di essere un individualista, e facendosi i fatti propri nel migliore dei modi, si dichiara anarchico. Ma si tratta soltanto di una questione di parole, non di sostanza. Quindi, esistendo due sole strade per procurarsi i soldi necessari a vivere, bisogna pure scegliere.

Ora, scegliendo la strada del lavoro non c’è dubbio che si fa scelta di tutto rispetto. Chi vende se stesso lo fa sempre per il migliore degli scopi possibili. Per la propria sopravvivenza, per quella dei suoi figli, della sua famiglia. E su questo piedistallo incontrovertibile, si accumula, a poco a poco, la struttura sociale del controllo e della repressione. I bisogni primari producono quelli secondari, dalla ricerca del pane si passa a quella dello status sociale, del riconoscimento da parte degli altri della propria abilità, del proprio essere qualcuno. La casa, l’auto, le ferie, i viaggi, i gioielli. Piccole cose, per carità.

Ma quale anarchico potrebbe negare ai propri figli il diritto di prendere una laurea? E questo anche quando tutti i ragionamenti critici conducono a dimostrare che si tratta di uno specchietto per le allodole. Perché mai dovrebbe essere proprio suo figlio l’allodola di turno? Perché mai suo figlio non potrebbe riuscire in quella scalata alla gerarchia sociale che spetterà poi soltanto a lui rifiutare, o accettare, e non ad una condizione preventiva determinata dalle scelte del padre? E qui il cerchio si salda.

Il lavoratore produce lo sfruttamento e lo sfruttamento riproduce il lavoratore.

La rottura del circolo vizioso è affidata ad elementi esterni, estranei alla volontà del singolo: crisi del capitale, scontri epocali fra grandi Stati, diluvi universali, funghi radioattivi. In mancanza di tutto questo: l’attesa. La preparazione, perdio, questa sì, che gli anarchici si preparano continuamente, la preparazione e l’approfondimento critico, la lettura, sempre di più, sempre meglio, e, perché no, anche dei testi più estremi e feroci.

Conosco anarchici che hanno chiamato il proprio gatto Bakunin e il proprio cane Bonnot, ma che non escono di casa la sera dopo le dieci per paura di fare brutti incontri o di essere derubati.

I profondi cambiamenti che sono intervenuti nella formazione produttiva hanno modificato il ruolo del lavoratore. I tempi di Duval sono lontani. Oggi il lavoratore è, se possibile, ancora più responsabile dello sfruttamento di quanto non lo fosse all’epoca di Duval.

La miseria e l’ignoranza generalizzate determinavano un bisogno estremo del lavoro, fino a quei livelli in cui non c’è più tempo per ragionare: o si muore o si accetta il tozzo di pane. L’inedia e le malattie ponevano spesso l’alternativa tra la morte immediata nella miseria o la ribellione cieca e senza sbocco.

Ciò faceva vedere diversamente (e in fondo diverso lo era) il lavoro e la sua funzione. La società liberata di domani poteva essere vista come una continuazione della società dello sfruttamento di oggi. Certo continuazione nella rottura (rivoluzionaria), ma sempre continuazione. Il lavoratore era orgoglioso del proprio mestiere. Duval era orgoglioso di essere fabbro, di manipolare con le proprie mani una materia forte come il ferro e i metalli, Léauthier si faceva punto d’onore di colpire il nemico col proprio strumento di lavoro, la lesina, mentre Marpaux era definito negli stessi rapporti di polizia un “buon lavoratore”, questo per restare fra i compagni di Duval.

In sostanza, però, i lavoratori più sfruttati, le fasce estreme della miseria che si vende al datore di lavoro, erano la stragrande maggioranza. La struttura piramidale della produzione, fortemente centralizzata, era in mano a pochi proprietari, a una fascia trascurabile di dirigenti e capiciurma, ma si basava in fondo su innumeri poveracci che soffrivano di essere ributtati sul lastrico ad ogni minima modificazione delle leggi di mercato.

E qui si inserisce una riflessione che spesso viene trascurata.

Le lotte rivendicative hanno alzato il livello di vita dei lavoratori, portandolo se non al benessere per tutti almeno ad una condizione di sufficiente disponibilità finanziaria. Nello stesso tempo le condizioni stesse di lavoro, la vita nella fabbrica, sono cambiate.

Miglioramenti e meccanismi assicurativi e pensionistici hanno reso più forte la condizione finanziaria e sociale del lavoratore. Questo innalzarsi della situazione di partenza, invece di tradursi in una maggiore possibilità di lotta, fatto che nelle ingenue pretese dei sostenitori delle lotte operaie e sindacali era quasi scontato, si è rivelato come l’inizio di un indebolimento. La trasformazione del capitalismo post-industriale ha fatto il resto.

Ma limitiamoci qui a questo grosso problema dell’indebolimento conflittuale conseguente all’innalzarsi del livello di vita dei lavoratori.

Di per sé la cosa si presenta molto comprensibile e trova riscontro in qualsiasi campo delle umane relazioni. Ne vedremo subito dopo le specificità nell’ambito della repressione pura e semplice. Perché allora risulta ancora oggi di così difficile comprensione? Perché si vogliono ignorare le conseguenze che sul singolo ha l’integrazione all’interno del sistema produttivo.

Oggi il lavoratore produce qualcosa che nella settorializzazione della formazione economica gli sfugge e che quindi non capisce, ma la rielaborazione dell’oggetto prodotto, rielaborazione in termini di simbolo sociale, gli viene offerta come se fosse a portata di mano. In altri termini, il lavoratore di oggi è solo in modo trascurabile il fabbro che era Duval, al contrario produce ad esempio automobili ma non ne vede la materiale realizzazione fra le proprie mani.

Il computer, il robot, la linea sincronizzata, la distanza, l’immagazzinamento diffuso nel territorio, tutto questo gli sottrae la visione diretta della cosa prodotta, la quale gli viene poi fornita come oggetto di consumo attraverso il sistema commerciale e distributivo, che trasforma quella cosa in simbolo capace di fornire status, quindi riconoscimento e verifica del proprio successo individuale.

La circolazione degli oggetti trasformati in simbolo, quindi sostituiti nel loro antico valore d’uso da un insieme – non ben differenziabile – di valore simbolico e valore di mercato, non si limita al solo momento economico (consumo e produzione), ma coinvolge la società nel suo insieme, una società di simboli e di bisogni indotti alla cui necessità non è quasi più possibile sottrarsi.

In questo modo, il lavoratore, diventato più ricco da un lato, ritorna dall’altro lato ad essere povero, commutatore di una circolazione fittizia di ricchezza che non lo arricchisce per niente ma che lo rende sempre più disarmato complice e manutengolo di fronte al nemico sfruttatore.

La ribellione di oggi, anche quella di Duval, non può quindi più passare attraverso la dimensione positiva del lavoro. Non ci saranno più compagni che in tribunale, rivendicando i loro furti e quanto altro hanno deciso di fare, affermeranno, con l’orgoglio di una volta, di essere stati privati di tutto e quindi di avere il diritto alla “ripresa individuale”, in attesa della ripresa collettiva.

L’attacco contro la proprietà e contro i responsabili dello sfruttamento, il sabotaggio, la distruzione pura e semplice di quanto opprime, non può nascere più dall’impossibilità di trovare lavoro, ma sempre più spesso nascerà dalla cosciente rinuncia alle lusinghe del lavoro.

Ora, la critica del lavoro non è problema semplice ed è bene che i compagni vi pongano mente con attenzione. Non l’approfondisco qui avendolo fatto altrove in maniera più dettagliata (vedi “Anarchismo” n. 73, pp. 21-34, ora in opuscolo: Distruggiamo il lavoro, Trieste 2007).

Legato al medesimo rapporto tra miglioramento delle condizioni e minore incidenza delle capacità di lotta è l’insieme delle considerazioni che intraprendo, riguardante l’ambiente repressivo in cui Duval si trovò dopo la sua condanna.

La Cayenna resta ancora nell’immaginazione di tutti noi il massimo dell’abbrutimento e della ferocia. Quando, leggendo un romanzo o magari vedendo le immagini di un film, ricostruiamo per nostro conto quelle esperienze, ne rabbrividiamo. Mi sono chiesto cosa avremmo potuto e saputo fare in quelle condizioni. Anche quelli fra noi che hanno conosciuto il carcere e la tortura, nella maniera in cui sono diventati faccenda quotidiana nel mondo in cui viviamo adesso, continuiamo a chiederci come avremmo reagito di fronte a condizioni di tortura e di detenzione correnti nelle isole della Guyana.

Una risposta superficiale potrebbe essere quella che anche là avremmo, come Duval e i suoi compagni, sputato in faccia agli aguzzini la nostra sfida di anarchici. Non ne sono tanto sicuro. Non ne sono sicuro come anarchico che cerca di guardare le cose criticamente, non ne sono sicuro come uomo che ne ha viste troppe, e di troppo brutte, per non conoscere un poco il cuore degli uomini, il cuore degli uomini miei contemporanei.

Non c’è dubbio che ci siamo infiacchiti. Tutti, senza eccezione. Il livellamento della società in cui viviamo ci ha trasformato in mediatori e opportunisti. Sul piano ipotetico non di certo, sul piano concreto resta da vedere. Ho conosciuto compagni che sembrava volessero mangiarsi il mondo, dopo cinque, dieci anni di carcere, li ho visti accettare un compromesso qualsiasi pur di venire fuori dalla situazione in cui si trovavano. Per carità, nulla di grave: né spiate o vendita di compagni, niente di tutto questo, ma un semplice assenso alle proposte dello Stato. Dopo tutto, cosa chiedono questi nostri persecutori d’oggi: una piccola dichiarazione, un gesto di distensione, qualche rigo sulla carta, nient’altro. Perché non accettare e tirarsi fuori dai guai?

Il fatto è che siamo tutti infiacchiti. Tutti. Come reagiremmo nei riguardi di uno Stato che al posto della carta da firmare ci proponesse un anno di catene ai piedi a pane e acqua, in una temperatura tropicale, chiusi in un sotterraneo con la sola compagnia dei topi?

La risposta immediata (e superficiale) sarebbe quella che in questo caso accetteremmo molto prima. E invece non è così. Questa risposta non coglie il problema e non rende giustizia alle mie considerazioni. Non sto dicendo infatti che quanto peggio vanno le cose tanto meglio per la lotta rivoluzionaria, sto dicendo una cosa più complessa. Le cose non possono peggiorare per la libidine di un qualsiasi aguzzino di periferia. Ciò può accadere (personalmente l’ho sperimentato in diverse occasioni), ma si tratta di casi particolari. Le condizioni in cui si venne a trovare Duval corrispondevano ad una situazione complessiva del mondo qual era all’epoca, nella fabbrica, nella famiglia, nella vita quotidiana e, quindi, anche nelle carceri e nella speciale condizione dei deportati.

Una società violenta e impietosa, dove i padroni non facevano nulla, o quasi, per nascondere le proprie intenzioni, e gli esecutori delle opere di bassa e alta giustizia, agivano di conseguenza. Meno ipocrisia, meno perbenismo, meno chiacchiere, meno assistenzialismo, meno democrazia. Chi attaccava la proprietà sapeva a cosa andava incontro. Chi distribuiva un volantino anarchico poteva anche prendere fino a otto anni di lavori forzati. Eppure c’erano i compagni che distribuivano volantini, che affiggevano manifesti, ed erano tanti, e non avevano paura, e non facevano calcoli.

Pensate, anche oggi noi anarchici affiggiamo manifesti e distribuiamo volantini, e parliamo, e critichiamo, e tutto il resto, ma a quali rischi concreti andiamo incontro? Pochi mesi di carcere nella peggiore delle ipotesi. Se oggi, da un giorno all’altro, per un’invenzione del potere, l’attività degli anarchici venisse punita con otto anni di lavori forzati, quanti di noi la continuerebbero? Pochissimi, forse nessuno. E non perché, singolarmente presi, i compagni di oggi siamo più codardi e più calcolatori di Duval, ma solo perché la situazione complessiva della società rende illogica una condanna così alta, non commisurata all’evolversi dei nostri costumi, quindi impensabile, e come tutte le cose impensabili non può essere facilmente immaginata.

Per un altro verso, il miglioramento delle condizioni complessive della società, come dicevo, ci ha infiacchiti, quindi resi inadatti ad una radicalizzazione dello scontro.

Se questa dovesse verificarsi, per motivi endogeni alla composizione strutturale della società, cioè per un movimento interno alle diverse componenti di quest’ultima, sapremmo affrontare gli ostacoli che si presenteranno (come si è visto nella ex Jugoslavia, la barbarie più assoluta è appena alle porte della società più avanzata e non impiega molto tempo ad arrivare).

Ma, fin quando questi movimenti oggettivi non si verificano, nell’ambito delle nostre capacità individuali di affrontare una situazione repressiva, il più delle volte, ci facciamo impressionare troppo facilmente.

Il perbenismo (apparente) della democrazia ci ha infiacchiti, per portare il colpo fino in fondo. Così ci facciamo mille scrupoli. Gli anarchici, brava gente.

Duval e i suoi compagni non erano così. Quei tempi erano troppo diversi dai nostri. Ecco perché, nel leggere le loro azioni, adesso, a distanza di tanti anni, corriamo il rischio di ammirarle e basta, di trasformarle in letture edificanti.

Ma non appena solleviamo il velo degli imbrogli democratici, ci accorgiamo che la distanza tra il potere e chi lo subisce è rimasta la stessa.

Da un lato gli inclusi, ormai quasi del tutto al sicuro nei loro fortilizi medievali, disposti solo a mercanteggiare migliori condizioni per garantirsi la perpetuità del dominio, dall’altro gli esclusi, sempre più disarmati, sempre più stupidi. Fra i tanti risultati della strategia possibilista c’è quello che questa strategia ci ha dissuaso dall’impiegare nella lotta tutti gli strumenti possibili, senza esclusione di colpi.

Ci hanno così reso galantuomini abituati a discutere e a dibattere in assemblea, ma non adatti a quella lotta al coltello che è ancora la dimensione possibile contro gli oppressori. Mentre loro, i nostri carissimi maestri di perbenismo, possono in qualsiasi momento aspettarci dietro l’angolo con i mitra spianati, e farci secchi in tutta buona coscienza, oppure torturarci nel fondo d’una prigione di periferia e, lontani dalla luce del sole, dichiarare ufficialmente la nostra morte per sopravvenuto collasso cardiaco.

Ma ogni categorizzazione lascia il tempo che trova. Innumeri sono i miserabili che giacciono sotto lo sfruttamento senza ribellarsi, accettando quel poco che viene loro dato come ricompensa, sognando un’ascesa sociale impossibile, e percorrendo sempre la stessa via della sofferenza e della sopportazione.

Allo stesso modo, una grande schiera formano i venduti che sostengono il potere con la forza delle braccia o con l’acume del cervello, poliziotti o illustratori delle virtù taumaturgiche dei dominanti di turno, aspettano anche loro che le cose migliorino finendo poi nel tramonto della pensione.

Dalle più alte cariche, dove diventa tangibile il gioco del potere, cariche piene di responsabilità e di ignominia, fino al più stupido dei servitori dello Stato, e, trasversalmente, dall’ultimo produttore, che soffre costruendo qualcosa che ormai gli è diventato incomprensibile, fino al quadro intermedio, sicuro di sé e del misero benessere che gli viene garantito, nessuno è veramente contento della propria situazione.

Anche l’alto burocrate, che accumula denaro e cariche, che ha ormai acquisito uno status inattaccabile, è scontento della propria situazione, e in questo si collega stranamente col più misero sfruttato che cerca di sopravvivere, ma, quasi sempre, né l’uno né l’altro si ribellano. Il primo per apparenti buoni motivi di raggiunta agiatezza, il secondo per altrettanto apparenti buoni motivi di insoddisfazione e di miseria.

Ma, l’agiatezza o la miseria, rispettivamente, possono soddisfare l’uomo? Oppure, nel secondo caso, renderlo automaticamente un ribelle? No. Occorre qualcosa d’altro. E quando questo qualcosa c’è, ecco che scatta la ribellione.

Insomma, la miseria da sola non basta a fare un ribelle, come, per altro, l’agiatezza, da sola, non basta a fare un soddisfatto di sé e del proprio ruolo di privilegiato sfruttatore. Spesso la miseria produce altra miseria, e nell’appannarsi della coscienza di sé, l’adeguamento e la sopportazione, magari la fede cristiana in un mondo migliore dopo la morte. Spesso, molto spesso, l’agiatezza produce desiderio di maggiore dominio, di scalata sociale, di accumulazione e riconoscimenti da parte degli altri.

Ma non si tratta di modelli assoluti. Ribelli se ne trovano di diversa estrazione. Anzi, spesso, la miseria come motivazione del proprio istinto di rivolta non è un buono e sicuro fondamento.

Il ribelle sconvolge la propria condizione di partenza, quindi, sia questa la miseria o l’agiatezza, egli si pone contro di essa, e non è detto che sia più facile lottare contro la miseria, non esistono chiarezze in questo campo, e tutti i luoghi comuni del passato andrebbero rivisti senza chiusure ideologiche.

Un nuovo modo di concepire la vita (che cos’altro sarebbe la ribellione?), non si costruisce senz’altro mettendo in rotta il precedente modo, ma penetrandovi in mezzo, sconvolgendo schemi e categorie, criticando concezioni superate e false, e quindi facendo fremere i propri desideri, rivolgendoli verso l’assolutamente altro ma anche verso il di già conosciuto perché diventi diverso e inaccettabile nella dimensione precedente.

Spesso il ribelle si trova nella tragica situazione di capire e non capire, nello stesso tempo, quello che gli sta accadendo, pertanto di contraddire e contraddirsi, di andare incontro al nuovo, quindi alla distruzione del vecchio, e di restare innamorato di sensazioni e ricordi, appartenenti al vecchio. Non c’è una linea retta che sancisce la direzione del progresso. Niente muore in noi una volta per tutte o nasce definitivamente a nuova vita. Il ribelle non è mai sacro in tutti i suoi aspetti. Nessuna ribellione sacralizza la vita al di là di ogni possibile dubbio.

Ci fu un tempo in cui in tanti abbiamo pensato la rivoluzione come processo se non proprio semplice, almeno lineare. I più avventurosi avanzavamo dubbi, ma in fondo questi dubbi finivano per costituire discorso marginale, tenendo conto del dilagare di un movimento che sembrava inarrestabile. Le infatuazioni ideologiche, come gli amori acerbi, sono fra le più irriducibili. La lezione degli eventi ha portato riflessioni più mature.

Alcuni, cogliendo il senso mortale di queste riflessioni, hanno ripiegato in buon ordine accettando l’offerta del potere, riempendo gli interstizi di una collaborazione contraccambiata con poche miserabili briciole.

Altri, cogliendo il senso vitale di tali riflessioni, hanno allargato il proprio orizzonte critico, approfondendo gli spunti che prima sembravano privi di fondamento. Così, i nuovi concetti non mettono da parte i vecchi (quanto desiderio di “fine dello scontro” c’è nel mettere da parte il di già accaduto), ma li sconvolgono fino in fondo, rendendoli diversi e pronti a svilupparsi verso nuovi concetti. La vita sarebbe un bagno incolore e privo di senso se non si riuscisse a leggerla attraverso una continuazione delle idee e dei sentimenti.

Abbiamo finalmente capito che nessuna rivoluzione sarà il risultato della somma di determinati avvenimenti, siano questi ultimi vicende dell’individuo o fatti sociali generalizzati. Il destino del quantitativo è quello di generare le condizioni per una ulteriore crescita, e così all’infinito. Non c’è un limite in questa direzione.

Capito questo non sappiamo ancora cosa determina, nella sua concretezza di scelte individuali radicali, la ribellione. Perché un Duval agisce come agisce? La miseria, il temperamento, le letture anarchiche, la frequentazione degli ambienti di lavoro dove fermentano stimoli rivoluzionari, il caso? Che cosa produce un ribelle? Non lo sappiamo. Quello che possiamo indicare, di volta in volta, sono le scelte e le conseguenze di queste scelte, per giunta osservate nell’ottica deformata della ricostruzione.

Il cuore o, per meglio dire, i sentimenti.

Ma possono i sentimenti essere, al contrario, elementi d’ordine, di cautela e, in definitiva, di acconsentimento? Certo che possono. Non esiste un’equivalenza tra sentimenti e ribellione, il che suonerebbe come a dire che per ribellarsi occorre mettere a dormire la ragione.

L’intelletto e la conoscenza, il pensiero riflessivo e lo studio, possono essere elementi importanti dell’azione rivoluzionaria, la quale diamo qui per inteso che comincia dalla rivolta individuale, ma non ne esauriscono la composizione. Ogni aspetto riflessivo conduce ad una presa di coscienza: sappiamo di più, non possiamo nasconderci dietro la scusa di non sapere.

Ma non ogni presa di coscienza conduce automaticamente alla rottura dell’equilibrio, alla dimensione dell’attacco. Spesso la conoscenza, il pensiero, appesantiscono l’azione, non ne agevolano lo sviluppo. Altre volte accade il contrario, ma come orientarsi?

Non esiste una regola generale, neanche una tendenza sufficientemente comprensibile. Il più delle volte non sono gli interessi colpiti che smuovono alla ribellione, quanto la dignità offesa. E per la risposta contro l’oppressore, risposta che poi diventa attacco nel corso della propria maturazione, basta molto poco.

La schiavitù di un solo uomo sulla terra è la mia schiavitù, in quanto a causa della sua sofferenza io non potrò mai essere libero. Come si vede, qui ci troviamo al di là della semplice rivendicazione. Solo a seguito di un traslato penalizzante i contenuti si può ritenere una difesa dei propri interessi (poniamo un discorso sindacale) una lotta contro la dignità offesa. Certo, le vie della rivolta sono tortuose ma presentano delle analogie.

Duval matura all’azione nella miseria e nelle difficoltà della vita, ma anche nell’approfondimento teorico, nella discussione, nelle assemblee popolari. Poi, in maniera conseguente, riflette sul da farsi, si procura i mezzi per agire (prima di tutto i soldi), attacca il nemico. Quando si è convinti di quello che si fa, tutto diventa elementare. Poi, nulla può fermarci. L’unità di teoria e azione una volta realizzata non la si spezza facilmente.

Altrove, le chiacchiere, le distinzioni, le attese.